Ancora una. Sempre tratta da notizie che circolano nel web. Senza commenti. Giusto per tenere a mente i numeri. Più in basso alcuni articoli tratti dall’inserto otto marzo di Liberazione "La questione è maschile" che fa una sintesi di quanto avviene in questo periodo.
Stalking da estranei: zero.
Stalking da persone conosciute: Genova, un uomo preso mentre minacciava la ex fidanzata che se non fosse tornata con lui l’avrebbe pagata.
Pedofilia da estranei: zero.
Pedofilia da persone conosciute: Ischia, arrestato un bidello accusato di aver violentato una studentessa della scuola media presso cui lui lavorava (è stato rilasciato perchè non c’erano riscontri).
Stupri e violenze da estranei: Bergamo, una donna ha denunciato di essere stata stuprata da un estraneo che è entrato in casa sua; Milano, due uomini arrestati per aver sequestrato e stuprato una donna; Latina, ragazza molestata e aiutata da due romeni.
Stupri e violenze da persone conosciute: Caserta, due ragazzi sono stati arrestati per violenza ad una minorenne; Cosenza, un padre arrestato per stupro e violenze ripetute alla figlia; Alto Adige, un uomo costringe la moglie a spogliarsi e restare a pregare tutta la notte al gelo chiusa in un terrazzino. Avevano litigato; Milano, insegnante sotto processo per aver palpeggiato 4 alunne; Roma, lei e incinta e vuole vedere qualcosa in tivu’, a lui invece piace il calcio, litigano e lui la picchia… per vedere la partita.
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"Emergenza stupri" e ronde
la radice maschilista è la stessa
Annamaria Rivera
A dubitare fin dall’inizio della narrazione pubblica dello "stupro della Caffarella" siamo stati in pochi. Con l’eccezione di qualcuno – EveryOne, per esempio, ha avuto il coraggio di smentirla in un dossier dettagliato – quasi tutti la hanno data per scontata, perfino quotidiani decisamente di sinistra: a nessun giornalista è venuto in mente di fare non dico una controinchiesta (non siamo mica negli anni ’70!), ma almeno una vera, onesta indagine giornalistica. Al massimo si è cercato di correggere l’amalgama indecente romeni-rom-stupratori dando la parola agli "zingari buoni", che avrebbero permesso la cattura di uno dei due accusati. Correzione che non ha migliorato la versione dominante, se mai le ha aggiunto quel tocco di paternalismo peloso che le mancava. Non parliamo poi del malcostume d’ignorare il principio della presunzione d’innocenza, specie quando si tratta degli "altri": sembra che anche a sinistra si cominci a pensare che rispettarlo è un lusso che non possiamo più permetterci. Il che la dice lunga non solo sullo scadimento del mestiere ma anche sull’egemonia culturale della destra.
L’"emergenza-stupri", lo sappiamo bene, è solo l’avatar più recente del vizio di orchestrare campagne propagandistiche di stampo forcaiolo e razzista, in cui a variare sono solo i capri espiatori: figure "aliene" che mutano secondo criteri statistici – la componente immigrata più numerosa – o biecamente strumentali – la categoria di "altri" più antipatica e/o più utile a spacciare l’urgenza di misure liberticide e persecutorie. Non è un fenomeno nuovo: la tendenza a ridurre l’attualità politica ai fatti di cronaca nera – selezionati, gerarchizzati, drammatizzati dai mass media secondo l’aria politica del momento – si manifesta dacché esiste uno spazio pubblico che esige qualche coinvolgimento dei cittadini, spesso in realtà ridotti a semplici elettori. E non è nuovo, anzi è antico come i linciaggi il tema del "diverso" che insidia le nostre donne. Vetusto è anche quello che attribuisce agli "altri" l’attitudine naturale ad opprimere, schiavizzare, far violenza alle donne: per limitarci all’Italia, un tempo era prerogativa dei terroni, più di recente degli "islamici". Non è nuovissima neppure la moda di prendere a pretesto crimini contro le donne, purché commessi da estranei, per compiacere o sollecitare gli umori collettivi più malsani: il "consiglio di guerra" convocato dal governo di centrosinistra dopo l’omicidio Reggiani ha fatto scuola.
Più stravagante è che ad allarmarsi e starnazzare per l’"emergenza-stupri" sia chi ha reintrodotto nello spazio pubblico il celodurismo, rinverdendo così lo stile mussoliniano. Si sa, parlando dell’Altro si parla di se stessi. Che a gridare contro lo stupratore alieno sia la Lega nord, il partito che ha reso linguaggio politico l’esibizione genitale -così prossima alle fantasie e agli atti di stupro- rivela quali siano le pulsioni che si agitano nel ventre maschilista, razzista e fascistoide del nostro infelice paese. E’ da quel ventre misogino che nasce l’idea delle ronde, apparentata con la violenza sessuale dalla medesima attitudine proprietaria nei confronti dei corpi femminili. Del resto, la complicità del mondo maschile maggioritario con gli stupratori, quelli veri, è mostrata dall’atteggiamento abituale allorché il violentatore è italiano: se ha consumato il suo crimine all’interno delle mura domestiche prevarrà l’indifferenza; se lo ha fatto in un luogo pubblico, si dirà che è stato colto da un raptus o che, povero ragazzo, era sotto l’effetto di droga o alcol.
In realtà, lo stupro è endemico ai più vari sistemi sociali che valorizzano la cultura del potere, della sopraffazione, della violenza.
Il più delle volte avviene nel chiuso delle relazioni di prossimità: in Italia, come a livello mondiale, la maggior parte delle violenze sessuali è esercitata da parte di persone che conoscono la vittima. E’ trasversale alle classi, agli ambienti sociali, alle culture, alle appartenenze religiose, alle nazionalità, ma comune a un solo genere: quello maschile. Per decenni il movimento femminista italiano ha cercato di richiamare l’attenzione dei poteri pubblici sullo scandalo di questa violenza endemica e del sistema che la favorisce: un sistema di relazioni di potere talmente squilibrati in sfavore delle donne che anno dopo anno, come abbiamo riferito più volte, i rapporti del World Economic Forum collocano l’Italia sempre più in basso nella scala della parità uomo-donna, al di sotto di alcuni paesi del terzo mondo. Mentre le donne conquistano margini crescenti di libertà e autonomia, poco mutano i meccanismi della discriminazione di fatto. Anzi, è proprio la conquista di quei margini, in assenza di una rappresentazione pubblica condivisa dell’eguale diritto, dignità, valore del genere femminile, che spinge una parte del mondo maschile, traversato dalla crisi della virilità tradizionale, verso la frustrazione, il rancore, la paura, il desiderio di punire le donne. C’è un ritorno – lo avete notato? – del vecchio vizio di umiliare l’autorevolezza femminile. Come negli anni prima del femminismo, accade che dei maschi provino a importi il silenzio o a screditare la tua parola come illegittima o aggressiva. In fondo, sessismo e razzismo hanno la stessa matrice: il desiderio di annullare l’altro-da-sé che non si sa riconoscere come parte del proprio sé.
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La miccia corta
in mano agli uomini
Beatrice Busi
L’assemblea cittadina di femministe e lesbiche, che ieri sera ha dato vita ad un corteo per ribadire che la violenza maschile non è una questione di ordine pubblico, non ha ricevuto il "permesso" – autorizzazione paterna o maritale? – a percorrere le vie del centro. Ironia della sorte, per motivi di ordine pubblico. Proprio Bologna, infatti, ha il primato temporale nel recipimento della direttiva Maroni, che vieta le manifestazioni nei centri cittadini durante il fine settimana. Di mezzo c’è andata, come sempre per prima, un pezzetto di libertà per le donne. Eppure, malgrado tutto e tutti, le donne vanno avanti. Al contrario di quello che si dice, hanno meno paura, denunciano di più. Anche se la violenza è cambiata, insieme a loro. Non più ordinaria amministrazione dell’ordine simbolico patriarcale, ormai – questo sì – in preda al panico, è diventata stato d’eccezione permanente, feroce dispositivo di controllo che garantisce la riproduzione di un’organizzazione sociale fatta di disuguaglianze e di asimmetrie, fino a prendere le sembianze della vendetta contro l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne. Tra l’uguaglianza formale e quella sostanziale, si sa, c’è il mare di mezzo. Per trasformare il "senso comune" il diritto non basta, c’è ancora bisogno del "senso critico" della politica. Ma di quale politica?
Fino a una decina di anni fa, per parlare delle disuguaglianze tra uomini e donne, si usava l’odiosa formula "questione femminile", come se non riguardasse gli uomini. In questo 8 marzo, tante – per giungere alla ripetizione rituale e retorica della celebrazione istituzionale -, ancora troppe, le iniziative curiosamente declinate per coppie tematiche, che conservano il sapore della "questione femminile". Donne e politica, donne e cultura, donne e lavoro, donne e ambiente, e così via all’infinito. Ma che significa? Che abbiamo ancora bisogno di ricordarci e ricordare che le donne sono dappertutto, che, pur pagando prezzi altissimi, possono e fanno tutto? O che le culture politiche tradizionali, di destra e sinistra, continuano a mettere la "questione di genere" – nella versione politicamente corretta – nella sotto-agenda, quella eternamente rimandabile, delle questioni "specifiche"?
Certamente, nell’ordine del discorso, ci sono almeno due spaventose rimozioni che stordiscono. Quella che non fa nominare quasi mai le teorie e le pratiche politiche, in movimento e in continua ridefinizione, che hanno cambiato davvero la condizione simbolica e materiale delle donne: il femminismo, la rivoluzione più lunga, o come tante amano dire, l’unica rivoluzione del Novecento che ha avuto successo e che evidentemente è ancora scomoda, ancora spaventa. Una rimozione che fa il paio con quella che riguarda un altro genere, quello maschile, che ancora si può permettere di travestire la parzialità del proprio sguardo da neutro universale, l’uomo. Eppure, dalla sfera privata alla sfera pubblica, senza soluzione di continuità, tutto indica la grave responsabilità maschile, la vera questione dell’oggi. Del resto, la stessa crisi della politica è maschile, perché le forme tradizionali della politica lo sono. Maschili i ceti politici in agonia – indipendentemente dalla variabile delle quote di rappresentanza "femminile" -, che quando non dichiarano apertamente la loro crisi, la esorcizzano e tentano di restaurare quell’ordine simbolico ormai decomposto, attraverso escamotage autoritari.
Maschile il fallimento di un sistema economico basato sullo sfruttamento selvaggio dei corpi, delle risorse, del lavoro di cura e di riproduzione. Le donne non ci stanno più, sono cambiate molto, in processi continui di differenziazione e soggettivazione, tanto che nessuna figura o finzione grammaticale può più riassumerne le trasformazioni.
E gli uomini? Quale alternativa possono credibilmente rappresentare? Ancora troppo pochi – quasi si contano sulle dita -, quelli capaci di avviare processi di radicale messa in discussione del maschile, come principio organizzatore gerarchico, violento, della società. Forse perché per il maschile non esistono terapie riparative. Va solo decostruito, sovvertito, smontato. Cominciate a preoccuparvene davvero, ascoltate le vostre paure, prima che il tempo a vostra disposizione si consumi, come una miccia corta.
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«L’impatto della differenza cresce
ma il paradigma dominante
rimuove ancora il lavoro di cura»
intervista ad Adriana Cavarero
Eleonora Forenza
Adriana, il tuo contributo teorico è stato importantissimo per la messa a tema del nodo uguaglianza- differenza e, in particolare, per una rilettura del processo fondativo del modello democratico moderno. Un modello, si potrebbe dire, fondato su una rimozione…
Sì, su una potente rimozione teorica della realtà storica e della concretezza materiale dei corpi. Tale rimozione si è determinata a partire dalla finzione logica, di matrice giusnaturalistica, di uno stato di natura in cui tutti gli individui sono uguali. E a partire dalla negazione che le differenze tra gli individui si traducano in disuguaglianza sul piano giuridico. Tale finzione è basata su una pregiudiziale rimozione della differenza sessuale: vale a dire, che la democrazia dei moderni, alle sue origini e nella sua stessa struttura teorica, rimuove la differenza sessuale femminile sussumendola nel paradigma dell’individuo inteso come maschio-universale. E’ quella che si potrebbe chiamare una originaria "sindrome di universalizzazione del maschile".
Si potrebbe dire, forse, che l’attuale crisi delle forme della democrazia è connessa alla "durata" di questa rimozione. A tale proposito, tu hai radicalmente criticato la tesi che definisce il problema attuale del modello democratico in termini di compimento mancato. Credo che questa tua critica sia strettamente connessa al potere omologante dei meccanismi di inclusione.
Sì, il modello giuridico moderno ha incluso le donne come se fossero uguali agli uomini, ossia nonostante la differenza sessuale femminile. Dunque, ancora una volta, sulla base di una rimozione. Esso si basa, cioè, su una grammatica astrattiva che rimuove le differenze singolari. Ed è proprio questa idea astratta di uguaglianza che trasforma le differenze in disuguaglianze sostanziali. Di qui, da questa cancellazione della concretezza, la distanza sempre più incolmabile fra l’esperienza quotidiana delle vite singolari e gli apparati istituzionali della politica.
Dunque, una grammatica astrattiva che ha come corrispondente una democrazia procedurale, che rimuove l’unicità e la concretezza delle vite materiali. A tuo avviso, mi sembra di capire, le cosiddette politiche per le pari opportunità sono interne a questa strategia di inclusione omologante?
Le procedure antidiscriminatorie sono una autoriforma, appunto una strategia del compimento della democrazia dell’uguaglianza, che si relaziona alla differenza o in termini di tutela o di miglioramento, cioè appunto di riduzione della discriminazione. Nel caso delle pari opportunità, si cerca di eliminare la condizione di svantaggio derivante all’individuo dal suo esser donna, rimuovendo la sessuazione stessa e includendolo come se fosse maschile.
Potremmo dire che il movimento delle donne ha, negli anni, praticato sia la strategia dell’autoriforma sia quella che potremmo chiamare un’altra politica, una politica differente. In stretta connessione col pensiero di Arendt, tu hai tematizzato questa politica differente come spazio di relazione e di esposizione all’altra.
Sì. E’ la politica intesa come costruzione di uno spazio di reciproca esibizione, di interazione esibitiva, come felicità dell’esporsi all’altra. La politica così intesa è l’assunzione dell’essere costitutivamente relazionale e dipendente del proprio sé. Ed è nella costruzione di questi spazi, di per sé, in sé, pienamente politica, che l’unicità concreta e sessuata non solo non è rimossa, ma può pienamente esporsi.
Ti pongo, a questo punto una domanda, relativa ad un nodo al contempo critico per la storia del movimento delle donne italiano e attualissimo, se pensiamo che il pensiero delle donne e la critica femminista possano agire, contribuire a costruire senso in quella che chiamiamo crisi della politica che è, anche, crisi delle forme della politica: c’è una relazione possibile tra la costruzione di spazi di politica differente e la trasformazione, anche conflittuale, dei luoghi e delle forme della politica cosiddetta mista?
E’ evidente che la felicità dell’esposizione all’altra è di per sé pienamente politica ed è pure vero che questa aspirazione alla politica come felicità si può praticare anche come progetto nei luoghi classici, di marca novecentesca della politica. Bisogna però dire, che specialmente in Italia, i partiti si sono rivelati troppo spesso impermeabili a questa idea della politica. O, ancora, hanno sussunto, e cioè, neutralizzato senza riconoscere alcun debito, il pensiero e le pratiche delle donne.
A proposito della necessità di sottrarre le unicità e le concretezze materiali alla procedure astrattive delle democrazie… In questo periodo viviamo una vera e propria ossessione normativa, volta al disciplinamento del corpo: dalla legge 40 fino alla attuale discussione sul testamento biologico.
Siamo in una direzione che va in senso radicalmente contrario alla democrazia come strumento che libera lo spazio per l’unicità e per la concretezza. E vi è sicuramente un continuum, una connessione tra democrazia astrattiva e procedurale, cultura patriarcale e dispositivi securitari. Qui torna, attualissima, la riflessione di Foucault. In questo contesto, siamo nella necessità di dover difendere il principio di autodeterminazione nei confronti di un nuovo, potentissimo autoritarismo. Ma è altrettanto importante sottolineare, io credo, pur ripeto in questo contesto di necessaria difesa del principio, che l’autodeterminazione non può essere intesa come autodeterminazione dell’individuo astratto, e, dunque, come "perfetta" autodeterminazione. Non si può, cioè, rimuovere l’essere costitutivamente in relazione dei soggetti, la fragilità dei corpi, l’esposizione e la relazione con l’altro nella malattia. Vi è una diversità radicale tra una declinazione astratta del principio di autodeterminazione e una declinazione che assume come fondativa la relazione. Una dimensione, purtroppo, che rischia di essere rimossa anche nel dibattito sorto a partire dal caso di Eluana Englaro.
Anche in questo dibattito, cioè, vedi il rischio di una rimozione della singolarità in relazione?
Ci sono situazioni in cui la decisione è presa dalle persone concretamente in relazione con il malato, gli stretti familiari o i medici che sono in contatto con questo corpo. Sono, a mio avviso, situazioni concrete non sottoponibili, indisponibili alla normazione. C’è, da questo punto di vista, una ingerenza del diritto. E’una contraddizione ancora da pensare. Ma vorrei dire che anche da "sinistra" o da una "posizione democratica avanzata" non possiamo affidarci totalmente a un principio astratto di autodeterminazione. Bisogna pensare concretamente che questo tipo di situazione sia indisponibile alla normazione. La legge, come diceva Platone, è generica. Noi, anche "da sinistra", non possiamo rimuovere quel contingente che la legge non può contemplare.
Da ultimo, la critica femminista al paradigma inclusivo della cittadinanza è strettamente connessa alla critica del paradigma lavoristico, anch’esso un paradigma astrattivo che non riconosce, ad esempio, il lavoro riproduttivo. Pensando ai processi di precarizzazione o, da ultimo allo innalzamento dell’età pensionabile, verrebbe da dire che anche qui lavora una potente rimozione..
A proposito dell’innalzamento dell’età pensionabile vorrei dire che mi sembra davvero inaccettabile che si prenda questa decisione di far pagar la crisi alle donne. Davvero, poca fantasia. Peraltro, non si tiene invece conto che socialmente la differenza sessuale ha un impatto sempre più rilevante. L’allungamento della vita, l’invecchiamento della popolazione, fanno sì che sulle donne ricada in misura sempre più rilevante il lavoro di cura dell’assistenza agli anziani. Come si può parlare di parificazione dell’età pensionabile senza un’effettiva parificazione anche nella redistribuzione del lavoro di cura? Una parificazione, questa, che richiede spesa, intervento sul welfare. Ancora una volta, peraltro, agisce proprio quel paradigma lavoristico, che concepisce il lavoro come lavoro produttivo salariato e che ignora il lavoro di cura. Esso non è solo un’istanza etica, ma ha dei grandissimi costi sociali.
—>>>La foto è Artemisia