Pubblichiamo un’intervista con Judith Butler sul conflitto israelo-palestinese e sul suo ultimo lavoro Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism (trad. it. Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, Raffaello Cortina 2013) apparsa su www.opendemocracy.net il 23 luglio 2013. La traduzione è a cura di Nicola Perugini e Federico Zappino.
Ormai Judith Butler si è abituata a ricevere le accuse più improbabili. Di recente è stata definita un’idiota utile alla causa dell’antisemitismo, una sostenitrice del terrorismo internazionale e – classico sempre attuale – un’ebrea che odia se stessa.
È tuttavia insolito che una filosofa poststrutturalista possa essere la destinataria di accuse di questo tipo. Lo è meno, però, se si considera la speciale reputazione che Butler, che insegna Letteratura e Teoria critica presso il Dipartimento di Letterature comparate dell’Università della California, a Berkeley, si è guadagnata negli anni. I suoi lavori sui conflitti, sul genere e sullo Stato-nazione hanno infatti radicalmente trasformato il modo in cui pensiamo la società.
A differenza di altri filosofi, inoltre, lei prende parola pubblicamente a partire dalla sua posizione di ebrea antisionista. Ogni gesto pubblico di Butler, pertanto, viene reso oggetto di controllo e, spesso, di censura. La conferenza che ha tenuto nel febbraio del 2013 al Brooklyn College sul BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzione), ad esempio, è stata accolta in modo piuttosto imprevisto. Lo stress che l’ha colpita in seguito all’avvenimento l’ha portata addirittura ad annullare tutte le altre conferenze in programma per il resto della stagione.
Il suo ultimo lavoro dal titolo Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo costituisce dunque la replica a quanti vorrebbero collocare l’antisionismo al di fuori dei confini in cui il discorso pubblico ebraico è invece reso accettabile. A fronte del tentativo del Segretario di Stato americano John Kerry di rilanciare la soluzione dei due Stati in Israele/Palestina, Strade che divergono analizza criticamente tutte le soluzioni attualmente in discussione. Sfidando la povertà concettuale delle soluzioni più in voga, la proposta di Butler consiste in un sistema etico fondato su un modello di relazione con l’alterità che l’autrice considera alla base dell’essere ebrei.
Sostenitrice del binazionalismo, Butler suggerisce che il passaggio dalla “segregazione” alla “coabitazione” – passaggio pur tuttavia ambiguo o comunque problematico – costituisca una soluzione preferibile, da un punto di vista etico, rispetto a quella dei due Stati. Butler definisce questa proposta nei termini di una trasformazione radicale che dalle strutture sociali arriva al sé e viceversa: ogni coabitazione vera e propria, d’altronde, richiede una trasformazione sociale e individuale del modo di trattare chi occupa posizioni marginali.
Ma, si badi bene, non si tratta di una soluzione romantica. “Quanti si aspettano che dall’inimicizia possa all’improvviso nascere l’amore, probabilmente, si sbagliano”, dice Judith Butler, aggiungendo: “la coabitazione può essere infelice, miserabile, ambivalente. Può anche essere piena di antagonismo, ma può avere luogo nell’arena politica senza il ricorso all’espulsione o al genocidio. Questo è il nostro dovere”.
Quando ci incontriamo, Butler sembra affaticata. La posizione che sostiene, d’altronde, non è semplice, ed è suscettibile di intenzionali travisamenti. La professoressa che si definisce “una intellettuale cosciente di sé, che se ne sta in disparte” ha ora deciso di entrare a gamba tesa nel dibattito politico di uno dei conflitti più aspri del nostro tempo.
Open Democracy: Nell’Introduzione di Strade che divergono accenni alla tua storia personale e al lutto che ha colpito la tua famiglia sotto il regime nazista, e scrivi anche che potrebbe essere qualcosa di interessante da esplorare, ma che non sia quella la sede più appropriata. Perché no?
Judith Butler: Questo è un bel problema. Io non ho un cognome ebraico, ma ciò è da imputare principalmente a tutte le peripezie che possono accadere durante l’emigrazione. La famiglia di mia madre venne sterminata in Ungheria, nei primi anni Quaranta, e io sono cresciuta con questa consapevolezza, ma anche con un senso decisamente troppo pesante del trauma che ha colpito la mia famiglia.
Da un lato, di conseguenza, potrei dire che questa cosa mi conferisca credibilità: chiunque direbbe “oh, lei può parlare perché è un’ebrea, è stata allevata come un’ebrea, fa parte della seconda generazione di ebrei sopravvissuti all’Olocausto”. Ma avrei il diritto di rivendicare questa posizione? Mi conferirebbe davvero una maggiore legittimazione? Posizione nei riguardi della quale, peraltro, nutro ancora una forma di rabbia. Dunque perché dovrei farlo? Non mi va di vendermi in questo modo. Vorrei che le mie argomentazioni fossero buone argomentazioni sulla base di ciò che attualmente ho da dire.
Pertanto, la mia posizione è quella di un’ebrea che non vuole essere rappresentata dallo Stato di Israele, il quale invece sostiene di rappresentare tutti gli ebrei, né essere sua potenziale cittadina. D’altronde sono convinta che Israele non mi conferirebbe oggi alcuna forma di cittadinanza.
OD: Forse dietro conversione?
JB: Sì, forse dietro una buona narrazione della conversione… ma, ad ogni modo, non sfrutterò quella strada. Mi piacerebbe percorrerla, ma non sfruttarla. Anche se non la percorressi del tutto, d’altra parte, sarebbe un problema. Penso che i lettori vogliano sapere chi sono e da dove vengo.
Spesso, quando si incorre nella domanda “sei sionista?”, la risposta “no” è vista come un malcelato desiderio di distruzione dello Stato di Israele o come un tuo coinvolgimento diretto in potenziali o reali attacchi diretti a Israele. Alla stessa domanda, dunque, mi sento di rispondere: “non su queste basi”.
Io nasco come sionista, ma solo perché non possiamo scegliere le nostre origini. Il sionismo era nell’aria, nella mia famiglia, ma per quanto mi riguarda ho rotto con esso non appena sono stata in grado di porre domande a riguardo. E ciò non significa che io desideri la distruzione di un popolo: significa, piuttosto, che desidero uno Stato le cui strutture incarnino in maniera decisamente più sostanziale i principi basilari della democrazia.
OD: Perché il tema della coabitazione è così importante nel libro?
JB: Alcuni politici israeliani hanno proposto di trasferire i palestinesi fuori dall’attuale Israele, o nei territori occupati [da Israele: Cisgiordania e Gaza ndr], o in Giordania, o in altri paesi arabi. L’idea è che in questo modo non ci sarà alcun mescolamento tra palestinesi ed ebrei israeliani, o tra palestinesi e comunità ebraiche.
Ma trovo indegna l’idea di una segregazione. E allo stesso modo, se guardi a parte del linguaggio nei documenti fondativi di Hamas, c’è quel famoso appello a gettare gli israeliani nel mare. È anche vero che la maggior parte dei politici palestinesi dicono che ovviamente non è questo ciò che vogliono, e anche dentro lo stesso Hamas c’è un dibattito aperto a proposito di quell’appello, ma fino a che l’appello non verrà rimosso la sua nocività resterà.
Dunque sto cercando di pensare a cosa succederebbe se togliessimo di mezzo, per tutti, l’espulsione dalla discussione, e pensassimo invece ai diritti di chi è già stato espulso. Cosa succederebbe se pensassimo insieme, dentro lo stesso ragionamento, ai diritti dei rifugiati che sono venuti in Israele dopo la Seconda Guerra Mondiale, dei rifugiati provenienti da altri paesi, e dei rifugiati palestinesi che sono stati spossessati delle loro terre e case?
Abbiamo bisogno di una comprensione giuridica e politica dei diritti del rifugiato in cui la soluzione per un gruppo di rifugiati non produca una nuova classe di rifugiati –non si può risolvere un problema di rifugiati creando un problema nuovo, potenzialmente ancora più grande. Se questa norma, che a me sembra particolarmente logica e chiara, diventasse una norma di base, allora vi sarebbe un punto di partenza da cui iniziare a pensare la coabitazione.
È stato Edward Said a pensare che se vi è una speranza nel binazionalismo, questa consiste nel fatto che, nonostante la storia di privazioni ed esilio degli ebrei sia diversa dalla storia di privazioni ed esilio dei palestinesi, entrambe traducono esperienze scottanti e recenti che potrebbero consentire loro di giungere a una comprensione comune dei diritti del rifugiato e di ciò che potrebbe significare vivere insieme, a partire da storie così simili.
OD: Nel mezzo di questa discussione sulla coabitazione dici: “Certamente il binazionalismo non significa amore, ma in esso vi è, potremmo dire, un elemento necessario e impossibile che si prende gioco dell’identità, un’ambivalenza che emerge dal decentramento dell’ethos nazionalista e che pone le fondamenta per una rivendicazione etica permanente”. Dunque esiste una questione etica: non scegliamo con chi coabitiamo, e anche se questo produce un’ambivalenza, dobbiamo semplicemente accettarla.
JB: Sì, esattamente. Le persone che si aspettano che l’inimicizia si converta improvvisamente in amore stanno adottando un modello di pensiero sbagliato. Penso a quello che Hannah Arendt intendeva quando disse che “non possiamo scegliere con chi coabitare il mondo”, è che tutti coloro che abitano il mondo hanno un diritto ad essere qui in virtù del fatto stesso di essere qui. Essere qui significa avere un diritto a essere qui.
Ovviamente quello che intende dire Arendt è che il genocidio non è un’opzione legittima. Decidere che un’intera popolazione non ha diritto a vivere nel mondo non va bene. Non importa quanto la relazione con questa popolazione sia vicina o lontana, ma non esiste un diritto di cancellare una popolazione o di degradare la sua fondamentale umanità.
Dunque cosa significa vivere insieme agli altri? Questa esperienza può essere infelice, miserabile, ambivalente. Può anche essere piena di antagonismo, ma può avere luogo nell’arena politica senza il ricorso all’espulsione o al genocidio. Questo è il nostro dovere: restare nella sfera della politica qualsiasi rabbia omicida abbiamo, senza agire su di essa.
JB: Penso che alcuni di loro lo facciano. In Israele ci sono spazi in cui le persone, più o meno, condividono i loro quartieri. Ad Haifa ci sono intere comunità che sono più o meno integrate. Ma queste condivisioni avvengono con palestinesi con passaporto israeliano che hanno, in gran parte, accettato certi modelli cooperativi e una cittadinanza di seconda classe.
Dobbiamo essere fortemente critici con quei modelli di cooperazione che rafforzano le disuguaglianze. Vogliamo modi di coabitazione e solidarietà –alcuni la chiamano coesistenza– che mirano a trasformare tutte le dimensioni, così da avere una uguaglianza politica ed economica reale, la fine dell’occupazione e una qualche forma di rispetto del diritto palestinese al ritorno.
OD: Quindi Strade che divergono è un invito alla trasformazione?
JB: Penso di sì. Ci sono tre appelli fondamentali che faccio sulla scia degli attivisti e degli studiosi palestinesi che hanno lavorato a lungo sulla questione. Il primo è un appello a creare una solida base costituzionale [dentro l’atturale Israele, ndr] per l’eguaglianza di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro religione, etnia o razza.
Il secondo è un appello per fine dell’occupazione, che è illegale e costituisce l’estensione di un progetto coloniale. Secondo me la Cisgiordania e Gaza sono colonizzate, anche se Gaza non è occupata nello stesso modo in cui è occupata la Cisgiordania. Il governo e l’esercito israeliano controllano tutti i beni che entrano ed escono da Gaza, e hanno ristretto l’uso di materiali edili che potrebbero consentire ai palestinesi di ricostruire le case e le strutture distrutte dai bombardamenti israeliani [durante le operazioni “Piombo Fuso” (2008-2009) e “Pilastro di Difesa” (2012), ndr].
Il terzo appello è forse il più controverso. Ma ritengo che sia urgente pensare a come concettualizzare il diritto al ritorno, a come rispettarlo, sia attraverso un ritorno fisico dei rifugiati palestinesi ai loro luoghi di origine, sia attraverso una compensazione. Alcuni progetti prevedono un progetto nelle zone in cui i rifugiati vivevano, senza che questo voglia dire un ritorno nelle stesse case in cui abitavano [e da cui sono stati espulsi, ndr].
Ma le persone che sono state trasformate in dei senza-stato dall’occupazione hanno diritto ad essere rimpatriate, e la questione qui é: in quale stato, in quale area territoriale e in quale comunità politica? Chi è stato espropriato ha diritto a una qualche forma di compensazione. Queste sono norme internazionali fondamentali.
OD: Nel tuo ultimo capitolo citi la poesia in cui Mahmud Darwish dice “una vita possibile è una vita che aspira all’impossibile”. E descrivi questa frase come un paradosso. Potresti spiegarlo?
JB: Ci sono persone che credono nella realpolitik e dicono: “Non ci sarà mai uno stato, non ci sarà mai uguaglianza, non ci sarà mai pace… non ti illudere. Se vuoi essere politico, pensa concretamente e pensa a quali aggiustamenti puoi fare all’interno dell’attuale regime politico”.
Allora mi viene da pensare: va bene, ma cosa significherebbe vivere in un mondo in cui nessuno accantonasse la possibilità di un’uguaglianza politica sostanziale, o di una fine completa delle pratiche coloniali? Cosa succederebbe se nessuno mettesse da parte queste aspirazioni con la scusa che sono impossibili? Le persone ti deridono quando dici diritto al ritorno. Ero in un incontro tra israeliani e palestinesi in cui le persone dicevano: “Non succederà mai”. Così ho detto: “Sì ma non verrà tolto dal tavolo delle discussioni”.
A volte in politica la cosa che non potrebbe mai succedere inizia a succedere. E ci vogliono persone che resistono per questa cosa, persone che accettano di essere idealisti e di operare in contrasto con la realpolitik. Se non ci fossero questi ideali la nostra sensibilità politica sarebbe completamente corrotta da questo processo.
Forse, uno dei doveri della teoria e della filosofia è di dare forza a principi che sembrano impossibili, o che hanno lo statuto dell’impossibile, senza abbandonarli e continuando a desiderarli, anche quando sembrano irrealizzabili.
Va bene. È un servizio. Ma cosa succederebbe se vivessimo in un mondo in cui non ci fossero persone che lo fanno? Sarebbe un mondo impoverito.
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