Michela Murgia oggi su Vanity Fair commenta il pacchetto sicurezza approvato la scorsa settimana dal consiglio dei Ministri e promosso sui media come “legge contro la violenza e il femminicidio”.
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C’è poco da cantar vittoria: il decreto legge approvato dal consiglio dei ministri non è una legge contro il femminicidio. Si tratta infatti di un pacchetto di norme dove la violenza alle donne viene genericamente affiancata a fenomeni di natura assai diversa, come la violenza negli stadi e i crimini informatici, ma anche contro situazioni tutt’altro che criminali, come le proteste civiche contro decisioni imposte dallo Stato, stile Val di Susa. Perchè dunque stupirsi se questo pacchetto contiene solo inasprimenti di pena e procedure giudiziarie di emergenza? Se si considera la violenza di genere come un imprecisato problema di sicurezza nazionale, non si può immaginare molto altro che questo. Eppure sarebbe bastato ascoltare le associazioni delle donne che da anni ripetono che il femminicidio – inteso nel suo significato ampio di pratica di morte e mortificazione di una donna in quanto tale – prima di essere un dato criminale è un fenomeno culturale. Nel decreto, così come è stato presentato, di norme per affrontarne le matrici sociali non sembrano esserne state previste. Si parla ripetutamente di nuovi poteri alle forze dell’ordine, mentre non ci sono riferimenti al potenziamento dei centri anti-violenza, primo vero argine contro il femminicidio. Non si parla di investimento nei programmi scolastici, mentre invece sarebbe fondamentale avere percorsi di istruzione appositi di educazione al genere e all’affettività, le uniche azioni che possono contribuire a cambiare la cultura del possesso sin dalle scuole elementari.
Paradossalmente nel decreto si incarna invece proprio la mentalità che si dovrebbe combattere, attraverso la presenza di norme di stampo esplicitamente paternalistico come quella che rende la querela della donna irrevocabile; chi si assume l’arbitrio di impedire alla vittima di ritirare la denuncia, oltre a privarla dell’elementare diritto personale di rivalutare le sue scelte, dovrebbe anche garantirle con certezza che l’inasprimento degli abusi nei suoi confronti sarà impedito, perché nella maggioranza dei casi la querela porta proprio a un’escalation della violenza. Nessuno può ragionevolmente garantire alla donna e agli eventuali figli una protezione costante per tutto il tempo dell’iter giudiziario, tanto meno può farlo uno Stato che si occupa della violenza di genere solo in quanto reato, proponendo risposte legislative che mettono ancora una volta al centro l’aggressore e non l’aggredita.
Il solo passo avanti rappresentato da questo pacchetto di norme è il fatto che la politica finalmente stia cominciando a considerare il fenomeno del femminicidio come qualcosa di concreto di cui occorre occuparsi. Il secondo passo verso il traguardo di una legislazione civile veramente europea sarebbe quello di tirare fuori le pratiche di femminicidio dall’alveo delle “emergenze criminali” e cominciare a rendersi conto che la violenza di genere è una normalità sociale e che tale resterà fino a quando questo paese non si doterà dei necessari strumenti di contrasto culturale al patriarcato e al suo frutto principale: la violenza sui soggetti che indebolisce.
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non e’ certo una legge contro i femminicidi o contro la violenza di genere, che anziche’ includere i provvedimenti NOTAV avrebbe fatto meglio a considerare obiezione di coscienza e ru480. Ma probabilmente la laicità delle istituzioni e’ ancora un miraggio e l’argomento e’ decisamente scottante. Questa legge e’ pertanto uno scempio, passiamo alle richieste e chiediamo a Michela Murgia di sostenere questa causa