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II° FemBlogCamp: report parziale e un primo bilancio politico

Sapete qual è il punto? Che quello che è avvenuto lo scorso anno grazie alle compagne di Sguardi Sui Generis e grazie ai compagni e alle compagne dell’Askatasuna di Torino e quest’anno grazie alle Stregatte e grazie a compagni e compagne dell’Ex Caserma Occupata di Livorno trovo sia necessario spiegarlo con una questione perfettamente sintetizzata in un passaggio del libro curato e scritto da Laura Corradi, una donna che parla a bassa voce e dice cose serie che ti si saldano sulla pelle, a pagina 38:

Il processo di arginamento della carica extraistituzionale del femminismo si è intensificato in particolare dopo la Conferenza delle Nazioni Unite sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995, dove veniva di fatto sancita la supremazia del mainstreaming contro le tendenze più grassroots e militanti, in un processo di ulteriore istituzionalizzazione del movimento che ha depotenziato in termini di autonomia, creato dipendenze economiche sul piano della ricerca e rafforzato un establishment di api regine e piccole opportuniste – la letteratura in lingua inglese qui ci viene in aiuto con il termine femmocrats. Così vecchie trombone ed entusiaste damigelle hanno agito come filtri e gatekeeper nelle amministrazioni, nel sindacato e nelle università, spesso replicando elementi di sessismo interiorizzato, razzismo soft, omofobia latente, classismo accademico, pratiche esclusonarie verso i soggetti più critici o radical. (…) L’attività istituzionale infatti ha un senso se è collegata al movimento sociale da cui le istanze provengono. Se si tratta di misure istituzionali calate dall’alto esse tendono a spegnere l’attivismo e poi a rimpiazzarlo.

C’è il FemBlogCamp ma c’é anche stata in alcuni momenti la LadyFest e altri appuntamenti nazionali che mettono in rete donne, attiviste, che non si fanno spegnere e certamente non si fanno rimpiazzare.

Siamo così, noi, donne e uomini, gruppi misti e non, che tengono fede al proposito di autorappresentarsi e che non sono suddite delle chiamate alle armi di chi saccheggia i nostri contenuti per poi calarci dall’alto appelli, proposte, ddl che non ci rappresentano.

Tre giorni di discussione e condivisioni di pratiche, informazioni e saperi tra donne e uomini provenienti da tutta l’Italia e da vari paesi europei. Presenze triplicate rispetto allo scorso anno. Adesioni convinte da parte di chi ha tutto l’interesse a costruire e migliorare queste iniziative di rete sentendole proprie, fino in fondo.

Tre giorni di confronto in piena autonomia, ben sapendo quanto sia a questo punto un “lusso” il fatto di poter fare, parlare, agire la politica senza dover dire grazie a nessuno, autofinanziandoci, con una autogestione intransigente che significa libertà. La libertà di dire quello che si vuole senza preoccuparsi di partiti e gruppi di potere. La libertà di produrre pensiero differente sganciato da logiche mainstream. La libertà di mettere in condivisione ricerche e strumenti pensati in termini di assoluta gratuità. In uno scambio generoso, privo di qualunque copyright, che significa costruire la lotta dal basso, ben attente a non farcela scippare, assistendo al perenne saccheggio dei nostri contenuti e allo loro conseguente normalizzazione.

Lottando contro una cultura dominante e contro persone, molte donne, incluse quelle che dicono di lottare per i diritti delle donne, che la realizzano con proposte che rafforzano i rapporti di potere e spacciano per soluzioni liberatorie dispositivi calati dall’alto che impongono altri stereotipi.

Tre giorni in cui donne e uomini, tra una emergenza e l’altra, tra un turno di cucina e l’altro, hanno umilmente, senza targhe dedicate, senza burocrazie e distinzioni tra tutte le persone che hanno offerto propri contributi, regalato la propria esperienza e hanno partecipato a dibattiti circolari attraverso i quali si è dato avvio a nuove reti tematiche (o si sono consolidate quelle già esistenti), sulla 194, sulla comunicazione antisessista, sull’uso critico della rete, sull’antispecismo, sull’antifascismo, sull’uso consapevole della rete e sul rispetto della privacy, sulla violenza sulle donne, sulla prostituzione, sulla postpornografia, sulla slutwalk o comunque su nuovi linguaggi radicali, includendo l’uso dei corpi, che possono realizzare nuovi immaginari giacché altre pratiche sono state già fagocitate e messe al servizio di chi le usa come ulteriori alibi per normare le nostre vite, le nostre relazioni, la nostra sessualità.

Tre giorni in cui si è parlato di mille cose, durante, prima, dopo i workshop, a tavola, in fila per procurarsi il cibo, con i guanti da lavoro per rimettere a posto lo spazio, con le scope in mano per ripulire. E se c’è una cosa che ci piace è l’idea che l’autorganizzazione e l’autogestione, già rivoluzionarie di per se’, stimolino la pigrizia di chi è abituat@ a dibattere in luoghi perfettamente organizzati, dove qualcun@ paga per farti trovare spazi attrezzati, dove tu, talvolta, sicuramente non sempre, ti pieghi a quelle logiche filoistituzionali che poi sono le stesse che ti opprimono e ti escludono quando produci contenuti e pensieri critici.

Nel corso dei workshop che ho tenuto e che ho in parte seguito si è resa evidente la necessità di sganciarsi dalla proposta politica istituzionale che gira tutto attorno a se stessa e teme qualunque variazione. Altri soggetti, sedicenti femministi, interclassisti e misti per identità politica, dove emerge in maniera chiarissima come non si pongano questioni di classe, identità politica, razza, età, genere, poiché parrebbe abbastanza femminista qualunque cosa che orientativamente si occupi di “femmine” assolvendo le donne che producono razzismi, classismi, sessismi, hanno difficoltà ad ascoltare con rispetto le nostre rivendicazioni.

Tendono ad affibbiarci delle Tag che non ci definiscono per niente. Ci chiamano “le giovani” o quelle che parlano di postporno, e non colgono l’aspetto situazionista delle nostre azioni politiche, anche virtuali, esigono di poter violare la nostra privacy con schedature preventive, vogliono conoscere i nostri curriculum vitae perché più importante di ciò che dici per loro è esattamente chi tu sia.

Nel corso dei dibattiti, che vi riassumerò più nel dettaglio in altri post,  si è discusso della necessità di rendere autonoma la narrazione sulla violenza sulle donne, di renderla immune dalla forzata vittimizzazione cui corrisponde una demonizzazione conseguente da parte di tutori che ci vogliono funzionali a logiche repressive, razziste e securitarie, di svincolarla dal piano giurisprudenziale, di smetterla di far corrispondere ad una critica antisessista una conclusione avvocantizia perché la nostra azione è mirata a intervenire sul piano culturale e dell’aspetto penale non ci occupiamo.

Si è discusso di osare pratiche di decostruzione e subvertising e di sensibilizzazione dirette ai media che definiscono in modi sbagliati la violenza sulle donne. Dall’occupazione delle redazioni al sostegno delle giornaliste che lottano dall’interno per modificare i linguaggi, dal rafforzamento dei media indipendenti che restano collegati, inclusi i blog militanti, con i collettivi che agiscono nei territori, a ulteriori percorsi che mirano ad un unico obiettivo.

Si è discusso di cifre dei delitti, di violenza relazionale o di una violenza di genere che compone la violenza nei confronti deI generi. Di delitti che vengono riportati nella casistica come femminicidi e rispetto ai quali le proposte di legge individuano soluzioni che non sono tali. A fronte di un tot di delitti una percentuale enorme di uomini che compiono quei delitti poi si suicidano. Immaginare di voler imporre una aggravante ai cadaveri è cosa alquanto ridicola. Come è grave immaginare di voler imporre censure ai media in difesa della dignità delle donne.

Si è discusso perciò di prevenzione. Di totale incompatibilità tra le azioni gloriosamente propagandate dalla Ministra Fornero che da un lato firma la Convenzione di Instanbul e poi lascia soccombere donne e uomini nelle relazioni imponendo un welfare che condanna tutti/e al non lavoro. Si è discusso di campagne che demoliscano gli stereotipi e di proposte che partano dal basso e parlino di violenze nei confronti di donne, uomini, gay, lesbiche, trans.

Si è discusso di relazioni nella rete, di modalità intrusive, di autodifesa legale e di cyberstalking realizzato da uomini e da donne.

Parallelamente ci sono stati altri dibattiti ricchissimi e tra questi, in attesa dei report di chi ha tenuto i workshop, vorrei commentare quelli dedicati alla postpornografia e alla slut walk.

Entrambi i percorsi partivano dal personale per arrivare al politico. Tentavano di parlare di sessualità o di ragionare su modalità di piazza che potessero rappresentare la conclusione di un percorso di crescita e scambio e acquisizione di consapevolezza collettiva.

Nei due casi si sono verificate situazioni che nella plenaria sono state anche discusse e problematizzate. Non è assodato che le femministe vivano un rapporto con la propria sessualità libero da ogni limite o censura. Vi sono timidezze e normali inibizioni e poi vi sono passaggi da superare e possibilità da elaborare.

Non tutte hanno un rapporto sereno con il proprio corpo. C’è tanto da discutere e da mettere in relazione e questo non detto, che invece, a me è sembrato, dichiarato in workshop intelligenti che non davano nulla per scontato, crea un totale distacco tra il piano teorico e quello pratico.

La postpornografia è una pratica che può essere condivisa? Esporre la propria sessualità e il proprio corpo è una cosa che ci interessa? E in rapporto alla Slut Walk una riflessione che veniva da Le Ribellule: se c’è una percezione non condivisa di queste pratiche, o dell’uso dei corpi nelle lotte, in questo caso nella lotta contro la violenza sulle donne a ribadire il sacrosanto principio che possiamo vestirci come ci pare, non bisognerebbe partire da questo?

Aggiungo: se si fa una Slut Walk quante sono le donne e gli uomini che davvero sono liberi/e e liberati/e che mostreranno il proprio corpo? E nel mostrare i corpi quali sfide si vinceranno o quali stereotipi si consolideranno? Si mostreranno corpi di persone che interpretano la dittatura estetica, i canoni di bellezza dominanti? Le remore di chi non si mostra saranno dovuti a disagi nella relazione con il proprio corpo? E, al di là del senso politico della faccenda (che io sostengo e dico) forse, e mi pare di aver colto questa sollecitazione da Le Ribellule, non sarebbe prima il caso di ragionare sulle pratiche politiche, l’efficacia e i linguaggi di lotta ma anche sulla relazione che le donne hanno con i propri corpi che prima ancora di limitarle sul piano della lotta in pubblico le limita fortemente sul piano delle relazioni private e della loro sessualità?

Da che parte cominciare perché una pratica di lotta non diventi escludente o non rafforzi stereotipi sessisti? Come elaborare una forma di lotta che implichi l’uso dei nostri corpi e che corrisponda ad una reale crescita collettiva sul piano privato prima che pubblico? Come introdurre una provocazione che irrompa nella scena pubblica senza fare sentire inadeguate alcune?

Mi fermo qui, per ora. Ma quante ce ne sarebbero da dire. A partire dai sogni sconvolgenti di Mara, alla bellezza del collettivo di Femminismo a Sud con persone che adoro, a persone meravigliose conosciute per la prima volta, Miriam, Chiara e Paolo che mi hanno insegnato come si fa una panna vegana senza un goccio di latte e una pasta frolla senza uova e che hanno mietuto bellezza con sapori pregni di sensualità, a Nicoletta, che la abbraccio assai e lei sa perché, a Paola con i suoi mille doni fatti di verdure fresche, a Sara e le sue precarietà che la portano lontana da affetti e interessi, precarietà che sono quelle di tutte noi, a Erika che è tanto minuta quanto forte, fiera e determinata, ai compagni e alle compagne dell’Ex Caserma Occupata che hanno reso quel posto più accogliente per lasciarsi attraversare e contaminare da tutte noi.

A quella che oramai è la falange dis-armata calabrese di femminismo a sud. A tutte le amiche e gli amici napoletani/e che ho visto per la prima volta dopo tante chiacchiere online. Alle meravigliose compagne di ogni città d’Italia, a quelle che sono venute dalla Germania e che alla fine mi hanno risparmiato almeno la metà dell’alluvione che ci è piombato addosso proprio quando il FemBlogCamp era finito. Alle compagne spagnole ricche di saperi che avrei voluto ascoltare di più. A Cristina Obber che mi ha insegnato in pochi minuti che è necessario riappropriarsi della parola “patria” per toglierla dalle grinfie dei fascisti e per consolidare una idea di cittadinanza e accoglienza di tutte le etnie che vengono da altri mondi. A tutte le persone che sicuramente dimentico e che ho abbracciato, quelle con le quali avrei voluto parlare di più, che avrei voluto conoscere meglio senza averne avuto purtroppo il tempo, quelle con le quali sono riuscita a parlare, che mi hanno ascoltata e che hanno condiviso con me la voglia di inventarsi nuovi modi di fare politica a partire da noi. Con amore e passione.

Vi linko qui un po’ di report già messi in circolo da altre compagne.

QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, QUI

A presto!

Ps: dopo il calciobalilla di quest’anno che ha visto Le Ribellule contro le Sguardi Sui Generis per il prossimo anno vedremo di risolvere così i conflitti tra diverse pratiche politiche. Calciobalilla a conclusione di ogni workshop 😛

 

Posted in Fem/Activism, Iniziative, R-esistenze.


7 Responses

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  1. jane says

    Ciao ragazze. Sono di napoli e volevo sapere se ci sono gruppi femministi ai quali unirmi nella mia città. ne sapete qualcosa? grazie 🙂

  2. Marzia says

    siete grandiose!

  3. slavina says

    bello.
    (peró invece di calciobalilla si puó usare biliardino, che si capisce lo stesso e non suona cosí fascista? grazie)
    *quella che Le parole sono importanti 😉

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