Un bell’articolo tratto ancora da Filopop (la filosofia ai tempi del pop) il blog di Diogene Magazine. Grazie a Filopop per averci concesso di ricondividere e buona lettura a tutte!
>>>^^^<<<
Lo si diventa. Così scrisse a metà del XX secolo Simone de Beauvoir, anticipando la riflessione contemporanea sull’identità di genere.
di Alessandra Tanesini
Con questa frase, Simone de Beauvoir volle indicare che essere donna non è una questione puramente biologica fissata già alla nascita, né è un destino inevitabile. Più recentemente, ma in uno spirito che per certi versi non è dissimile dai sentimenti espressi da de Beauvoir, Judith Butler ha dichiarato che credere nelle identità “politiche”, tra cui si include quella femminile, è un errore, anche se è politicamente necessario.
La posizione di Butler può sembrare sorprendente. È difficile capire come possa essere un errore pensare che essere donna, o essere gay, non sia un’identità che cattura aspetti centrali degli individui. Per questo, la posizione di Butler e di altri proponenti del movimento cosiddetto queer è sembrata a molti negare alcuni fatti cruciali e ovvi dell’esperienza degli esseri umani. Eppure lo scetticismo a proposito delle identità non è senza motivazioni. Movimenti politici basati su un’identità hanno spesso incontrato difficoltà a formare coalizioni con gruppi basati su altre identità. Inoltre l’organizzazione interna di questi movimenti è stata a volte caratterizzata da una tendenza a sopprimere le differenze e imporre omogeneità di idee e comportamenti.
Questi problemi sono genuini, ma è un errore pensare che possano essere risolti semplicemente negando l’esistenza delle identità. I problemi sono politici e non metafisici, e possono essere risolti solo come tali. In questo contesto vale la pena di domandarsi perché all’interno del movimento femminista e del movimento gay questioni che sono all’apparenza politiche siano state trasformate in argomenti metafisici sulle essenze reali o nominali: questi sono dibattiti che si stanno prolungando da un paio di decenni senza apparente soluzione.
Le ragioni che hanno portato a questa situazione sono sicuramente molteplici. Una di queste è un errore fondamentale sul ruolo e la natura delle attribuzioni di identità. Si è assunto troppo in fretta che, se una persona dice di essere donna o di essere gay, ella stia descrivendo delle proprie caratteristiche sociali o biologiche. Interpretate in questo modo, le attribuzioni di identità funzionano come descrizioni delle qualità di individui o di gruppi, e come tali sono vere solo se gli individui o i gruppi in questione hanno tali qualità.
Questa interpretazione delle attribuzioni di identità ha creato enormi problemi. Sembra impossibile trovare, per esempio, delle qualità che tutte e solo le donne abbiano in comune, o tutti e solo i gay. I motivi per cui le caratterizzazioni biologiche falliscono sono ben noti e furono una delle motivazioni dell’asserzione di de Beauvoir che donne si diventa. Caratterizzazioni in termini sociali sono ugualmente destinate al fallimento. Le differenze tra le donne appartenenti a diversi ceti, etnie e culture sono tali da rendere sterile la ricerca di un gruppo di qualità non triviali che esse e solo esse abbiano in comune.
Identità e responsabilità
Vuol dire che le attribuzioni di identità sono tutte false? Vuol dire che sono errori, anche se inevitabili? Affatto. Diventa più facile considerare interpretazioni alternative se pensiamo ad altri esempi. Essere ateo, essere cattolico, essere un genitore o essere di sinistra sono tutte forme di identità. In questi casi, l’attribuzione a se stessi o ad altri di un’identità non sembra essere semplicemente una descrizione di qualità. Invece, tale attribuzione comporta il riconoscimento di impegni, di responsabilità, di diritti e di autorità.
Per esempio, attribuire a se stessi l’identità di genitore richiede che uno riconosca di avere particolari doveri e responsabilità verso i propri figli, e anche autorità e diritti speciali almeno fino a quando essi non raggiungono la maggiore età. Attribuire ad altri questa stessa identità vuol dire attribuire loro responsabilità e autorità verso i loro figli, e richiede che il nostro atteggiamento nei loro confronti tenga conto di questi fattori.
Queste brevi illustrazioni suggeriscono che le attribuzioni di identità non funzionano come descrizioni di semplici qualità, ma coinvolgono questioni normative di impegno e di autorità. È possibile rendere queste considerazioni iniziali più precise distinguendo tre dimensioni delle attribuzioni di identità, dimensioni che suggeriscono la natura normativa di tali attribuzioni. Queste sono: “Sensibilità alla responsabilità”, “Impegno alla coerenza”, “Proiezione nel futuro”. Se qualcuno pensa a se stesso o ad altri come genitore o come persona di sinistra, non tende solo a comportarsi in certi modi e ad aspettarsi che gli altri si comportino in maniera simile, ma attribuisce anche a se stesso e ad altri responsabilità e doveri speciali che sono una conseguenza di quelle identità. La mancanza di sensibilità verso responsabilità e doveri che fanno parte di un’identità suggerisce che la persona in questione non pensa a se stessa in quei termini, e come tale in alcuni casi può essere giustamente giudicata in termini negativi. Una persona che si dichiara di sinistra ma che non sembra attribuirsi alcuna responsabilità ad agire in modo tale da porre fine alle ingiustizie sociali sta mentendo o a se stessa o agli altri.
Nell’attribuire un’identità a noi stessi e ad altri dimostriamo anche un impegno a richiedere che ci sia coerenza tra le varie identità. La persona che si dichiara sia cattolica che gay non si assume genuinamente queste identità, se non percepisce almeno una tensione tra le due e non si sente obbligata a trovare un modo di rendere la propria posizione coerente. Tale persona può abbandonare una di queste identità o lottare per una trasformazione che le renda capaci di coabitazione coerente. In ogni modo, ella percepisce la tensione come qualcosa da superare.
Infine, l’attribuzione di un’identità implica un’assunzione di impegno per il futuro. Essere sposati a una certa persona è per molti una componente importante della propria identità. La persona che pensa alla propria unione in questi termini ha preso un impegno per il futuro. Tale impegno non è una predizione di ciò che accadrà nell’avvenire, bensì un’assunzione di responsabilità per il proprio comportamento futuro. Se il nostro compagno o compagna ci dice di essere in grado di predire che rimarrà con noi nel futuro, non troviamo tale dichiarazione affatto soddisfacente. Al contrario, la troviamo preoccupante. Quello che richiediamo è un impegno, non una predizione.
Il contrasto tra l’attribuzione di un’identità e l’attribuzione di mere qualità è evidente: amare il gelato alla nocciola può essere una caratteristica che un individuo attribuisce a se stesso, ma tale attribuzione non sembra comportare impegni o autorità. Se c’è una tensione tra varie caratteristiche, non si prova la necessità di renderle coerenti. Infine, se uno veramente ama il gelato alla nocciola può predire che tale amore resterà con lui per tutta la vita, ma è difficile immaginare il caso di una persona che si impegna ora ad amare per sempre il gelato alla nocciola.
Questi esempi dimostrano che attribuire un’identità non consiste nella descrizione di qualità biologiche o sociali dell’individuo in questione. Al contrario, tale attribuzione consiste in un giudizio normativo che richiede l’attribuzione di diritti e obblighi speciali. Le identità sia gay che femminile non sono in questo senso dissimili dall’identità di genitore o di cattolico.
Identità e discriminazione
La posizione proposta in questo contesto non nega che esista una dimensione biologica connessa a questi esempi; piuttosto la dichiara irrilevante in relazione alla questione dell’identità. Anche se esistessero qualità biologiche comuni a tutte le donne, anche se ci fossero predisposizioni genetiche all’omosessualità, essere donna o essere gay non consiste in questo.
Non consiste neppure nell’occupare un ruolo sociale caratterizzato da una serie di aspettative, obblighi e impegni stabiliti e delineati dalla società. Quest’ultima posizione è adottata da Butler, anche se questo fatto è oscurato dalla descrizione della sua posizione come performativa. Per Butler e altri che assumono posizioni simili le attribuzioni di identità sono in effetti descrittive, ma ciò che descrivono sono norme ed aspettative sociali piuttosto che qualità. Al contrario, nella posizione adottata qui, tali attribuzioni non hanno alcuna funzione descrittiva. Invece sono giudizi puramente normativi, sia politici che sociali.
Attribuire a se stesso un’identità consiste nell’adottare una serie di diritti e obblighi che bisogna essere disposti a difendere e che possono essere contrari alle norme sociali in vigore nella propria comunità. Tali attribuzioni sono corrette, e di conseguenza una persona possiede l’identità in questione, se ha i diritti e gli obblighi cui si sottoscrive.
È una conseguenza di questa posizione che non esistano identità politicamente o moralmente completamente negative. Individui e gruppi possono attribuirle a se stessi o ad altri, ma tali attribuzioni risulteranno sempre sbagliate. È solo quando le attribuzioni di diritti e doveri sono corrette (e ciò che le rende tali non è mai semplicemente una questione di quello che pensa la maggioranza) che gli individui posseggono realmente l’identità. Queste considerazioni suggeriscono conclusioni che possono essere sorprendenti. Alcune identità, come quelle familiari, religiose e forse etniche, sono basate su valori positivi, e rimarrebbero tali anche in una comunità ideale. Altre invece, come quella eterosessuale, gay o queer, dipendono essenzialmente dall’esistenza di discriminazioni. L’assunzione per se stessi di una identità gay o queer non può essere che tattica: uno la adotta semplicemente nel contesto di una lotta contro l’ingiustizia. In assenza di discriminazione, è possibile predire che le proprie preferenze rimarranno le stesse, ma non ha senso trattare tali predilezioni come una questione di identità. Tutto sommato anche adesso essere attratti da persone scure di capelli o alte o basse non viene trattato come una cosa importante, e non c’è ragione di credere che il genere della persona debba essere considerato diversamente.
Ne segue che, se uno è opposto alla discriminazione delle persone gay, essere eterosessuale non può mai essere una questione di identità visto che tale attribuzione è semplicemente equivalente all’arrogazione di privilegi ingiustificati. La tattica migliore per quelli che si oppongono alla discriminazione, ma non sono gay, è di rifiutarsi di attribuire a se stessi qualsiasi identità sessuale e di opporsi a ogni attribuzione fatta da altri.
La questione delle identità femminili e maschili e più complessa. Possono sopravvivere alla fine della discriminazione sessuale? In gran parte la risposta dipende da considerazioni che non sono ancora chiare. In una società senza discriminazioni gli adulti saranno ancora divisi in gruppi con responsabilità diverse verso i bambini, la cura della casa, ecc.? Se ci saranno ancora ruoli distinti, ci saranno ancora uomini e donne, se tali ruoli scompariranno, ci saranno solo esseri umani, la maggior parte dei quali con cromosomi XX o con cromosomi XY.
pubblicato originariamente su Diogene, n. 16, 2009.
Approfondire:
A. Tanesini, M. N. Lance, Identity judgements, queer politics, Radical Philosophy, n. 100, 2000.