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La mia datrice di lavoro

Meche con venature biondo rame. Capello liscissimo. Manicure e unghia lunghe e quadrate, stile zappa per scavarci la fossa. La mia. Abbigliamento ricercato da quarantenne che scala vent’anni per la cintura ottagonale con la fibia metallica e decorata. Stivaletto in pelle (animale) alla cow girl.

Non è l’ultima delle tamarre in giro per il mondo ma è la mia attuale datrice di lavoro. Arriva, mette il culo sulla seggiola e controlla quella cassa, i turni, ingressi e progressi, forniture, bolle di accompagnamento. E’ brava. Forse. Se apre bocca, però, è da lobotomia frontale. Pare che qualcuno le abbia risucchiato una gran quantità di materia cerebrale.

Che fai? Mi dice. Metto il grembiule che m’hai dato. Si si, è bello, vero? Certo, come no. Bello come il vomito di un ubriaco che s’è mangiato una scatoletta di fagioli andata a male.

Impiego a tempo. Secondo lavoro. Non le passa per la testa che al mio arrivo sono me stessa e quando indosso la sua divisa d’ordinanza, in verdino color vomito, recito una parte. Recito soprattutto con lei perché devo fingermi interessata alle stronzate che mi dice. Perché devo farla sembrare tanto interessante e devo condividere con lei i suoi obiettivi. La borsa griffata in pelle, il pantalone con la striscia e la scoloritura che lo renderebbe “unico”, la maglia presa a 300 euro per via di un particolare che la fa cadere bene, e poi guarda come valorizza la mammella, da non crederci, mammelle due, una per lato, e si intravedono i capezzoli che poi arriva il cliente tal dei tali che s’arrapa. Per Il capezzolo? Dico io. Cerrrrto, proprio per quello, perché lo vedo che mi guarda, seduto lì e quando arriva, mi raccomando, lo voglio servire io.

Ma certo, tieni la comanda, toglimelo dalle scatole ché a me ha già prodotto un triplo salto mortale dell’ovaia per come s’è fissato che ho il gluteo che l’accoglie. Che poi, mia cara, so bene che può essere difficile per te pensare che c’è tutto un mondo fuori che va ben oltre questo piccolo microcosmo alla Amelìe, ma quel tipo, ed è l’unico sforzo di comunicazione che faccio per preservarti da una delusione, fuori da qui è veramente zero, un povero, patetico, individuo di cui intravedi cose belle – e i gusti sono gusti – ma per pietà non dirmi mai i dettagli di quello che vi fate, semmai ve lo faceste, perché potrei chiederti un aumento solo per questo.

E già che ci troviamo a parlare di soldi, come la vedi se invece che cinque euro all’ora me ne dai sette, pure otto, lorde, dato che ho l’affitto da pagare e ho pure un amico da aiutare che al momento si trova nella merda?

Sai che non posso, dice lei, e penso alla sua borsa in pelle, al suo diritto di spendere i suoi soldi come le pare, al fatto che non c’è invidia, figuriamoci, ché lei può fare la tamarra quanto vuole, e non sarò io a dirle di favorire il crollo dei consumi puntando ad una qualità della vita che non si basi sulla quantità di cazzate che accumula per noia, penso a me, alle altre ragazze che ha preso tutte all’asta del precariato all’angolo con una offerta minima che non potevamo rifiutare, penso alla sua bella casa, al suo stivaletto, alla sua vita vuota, alla sua libreria piena di libri che non ha mai letto, al pianoforte che tiene in casa per darsi un tono senza che sappia distinguere una nota, al desiderio suo di vedere realizzato il figlio, di 9 anni, che sta un po’ e un po’ con lei e l’ex compagno che da lei dipende, alla sua indipendenza, al lavoro che le sarà costato mettere su un’attività, ai fondi che ha ottenuto da una famiglia benestante, a tutto il suo destino che per culo s’è incrociato con il mio e al fatto che non ci somigliamo, per origine, vissuto e obiettivi, e penso a tutto e poi mi ripenso snob e dico che in fondo lei che c’entra, ha fatto il suo, e pure io ho fatto il mio ma lei sta là e io sto qua a chiederle un’elemosina che non mi dà e tra poco inizia il turno, arriverà il tizio che lei vuole guardi i suoi capezzoli e io sarò ancora risucchiata tra amenità che rendono il mio lavoro ancora più difficile.

Provate voi a trottare per una serata intera subendo le battute di qualcuno/a che vi deprime alla sola vista. Son cose che dovrebbero chiamarle già torture. Infine la serata si conclude e lei, gentile, che non può darmi un aumento perché ha da comprar la borsa, mi chiama a parte e per farmi vedere quanto è buona e nobile d’animo mi mette in tasca dieci euro e strizza l’occhio. “Facciamo finta che stasera le mance vanno a -10…” – che poi vuol dire che quei soldi, gran signora mechata dei miei stivali, per far la tua buona azione quotidiana, li hai fottuti agli altri dipendenti, ché le mance sono di tutti, non sono tue. E lì mi viene in mente: quante altre volte hai fatto ‘sto giochetto? Per quali fini? Quella borsa che ti piace tanto, infine, te la comprerai con le mie mance o con il tuo guadagno?

Grazie, cara, come sei buona tu… nessuna. Abbi pazienza, no. Rimetto i dieci in gran silenzio nella cassettina. Aspetto la divisione dei pani e pesci e guardacaso mi restituisce i dieci che mi toccano. Ma è già diverso. Quelli sono miei, li ho guadagnati, perché una cosa bisogna pur capire, ché farmi amica per trattarmi con “favore” non è il mio obiettivo. Voglio diritti e non la tua benevolenza.

Voglio diritti. E’ così difficile da capire?

Posted in Narrazioni: Assaggi, Precarietà, Storie Precarie.