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Non lamentarti della precarietà. Pensa alla fame nel mondo!

Ho fatto il mio dovere. Ho partecipato alle vacanze pasquali di famiglia con il sorriso sulle labbra. Ho scherzato sul fatto che ancora non sono grande abbastanza, che è bello restare sempre adolescenti, che tanto a me ci pensano mammà e papà. Ho esibito tutto il mio buon umore, ho ingoiato l’umiliazione di dover vedere il cugino che ha la metà dei miei anni bello sistemato e impoltronito nell’azienda di famiglia, ho fatto le faccine strane quando ho sentito che l’altro zio metteva in piedi una attività per un altro figlio, ho risposto con ironia alla zia che mi chiedeva se prima o poi perfino io trovavo uno che mi sopportava così avrei risolto tutti i miei problemi e ho trascorso infine tutte le giornate con i bambini, quelli che ridono e scherzano e ti sfottono e si fanno prendere in giro e non ti caricano di sensi di colpa ed è liberatorio stare con loro perché puoi essere solo quello che sei: una precaria che si è rotta del mondo intero.

Tornando a casa trovo l’ennesimo disoccupato, accento partenopeo, che chiedeva la moneta, e a dirgli che sono precaria nonostante i vestiti buoni presi quando un lavoro ce l’avevo non sono tanto buona e allora tiè la moneta, un euro a te e se s’avvicina l’altro gli dico che ho già dato e se si avvicina pure la donna rom, con tutta la solidarietà di cui dispongo, le devo dire che si dividessero quell’euro perché sto a fare le ragnatele alla ricerca di uno stipendio decente e se insistono dirò che ho pure figli da mantenere che pare un argomento più plausibile perché se non sei madre pare che tu non abbia diritto a niente, neppure a lamentarti della precarietà.

Poi incontro il compagno che ho, precario pure lui, con i vestiti smessi del tempo in cui ebbe un impiego fisso, si passeggia in centro, si guardano le chiese, si misura il raggio di caduta dei colombi, si osservano i turisti che turisteggiano, si vedono intenti a fare foto, ma che ti fotografi dico io e comunque dove li trovate i soldi per venire a turisteggiare dove io faccio la fame, e poi, mano nella mano, ci si avvia verso un posto caldo, un letto, quello che ci si può permettere, l’affitto a margine del mondo, dove avere i muri con la muffa è una figata e dove ridi delle croste attaccate a bordo del bidet, crepe sulla parete, gli infissi che sputano aria fredda, la stufetta col motore in fiamme che pare mo’ decolla, ci si scoscia un po’ per volta perché il sesso da precari non è così disinibito, ché c’è da prevenire una bronchite.

Poi c’è l’orgasmo, ripiega su se stesso, liberatorio per due attimi e poi si parla del più e del meno, e quanto mi ami tu e quanto ti amo io, e tanto per allungare il brodo di questa convivenza stravagante da studentelli attempati che c’hanno la laurea in tasca e non se ne fanno un cazzo, ma siamo felici, noi, felici, si, perché come ci parliamo noi nessuno, come ci tocchiamo noi nessuno, perché ce l’abbiamo solo noi e che risate che condividiamo in questo inferno dipinto di mille colori che chiamiamo stanza.

Sabato prossimo s’ha da fare la manifestazione e i preparativi ci coinvolgono, obiettivi a breve termine e lotte convintissime perché siamo vivi e non ci arrendiamo, noi, o forse ci siamo già arresi ad una vita che diventa ogni giorno sempre più routine, a darci fiato e tempo mentre la gente diventa sempre più stupida, infognata com’è con la televisione, con l’indignazione per cause idiote, e la precarietà ci mette in fila, tutti quanti, a chiederci chi siamo e se contiamo le teste, di uomini, donne, bianchi, neri, gialli, rossi, a strisce e a pois, sono talmente tante ma distratte, ciascuno a farsi i cazzi propri e a contare briciole.

Le briciole che io ho buttato giù per l’immondizia dopo il pranzo pasquale familiare, con mio padre che mi dice che quel pezzetto di pane è un peccato buttarlo perché la fame nel mondo e un bimbo in africa farebbe carte false per averlo e io mi devo pure sentire una merda perché sparecchio all’occidentale e mentre mi piango addosso non sono sufficientemente ottimista da dire: sono precaria, dipendo ancora dalla mia famiglia, scopo in luoghi di fortuna e non so che fine farò nella mia vita ma che culo, perdio, il mondo è mio, perché altrove c’è gente che muore e io sono viva.

E allora mi pare che la fame nel mondo e quelle immagini dei bambini smagriti tenuti lì a fenomeno sociale da un occidente coloniale ingordo e sfruttatore, servano a contenere il mio bisogno di rivolta sociale e l’istinto di rivolta sociale di tutte quelle componenti umane frazionate in questa terra di presunti ricchi dove abbiamo le scarpe ai piedi, vestiti sulla pelle, qualche libro da sfogliare, un non meglio precisato diritto di parola e possiamo ancora girare per le strade senza vedere zombies più poveri di noi darci l’assalto per una moneta.

Ma si, in fondo, di cosa mi lamento. Sono una donna fortunata. Il mio compagno è un uomo fortunato. Siamo tutte persone fortunate. E tutto ciò che mi resta è un piagnisteo inutile. Domani vedrò di prendere una mazza e al primo che mi dice una parola storta gli trancio un faro della macchina. E se si lamenta dico che pensasse al terzo mondo. Quelli là una macchina neppure ce l’hanno. E non hanno manco le scarpe, pensa tu…

Posted in Narrazioni: Assaggi, Personale/Politico, Precarietà, R-esistenze, Storie Precarie.


8 Responses

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  1. antonellaf says

    Anch’io trovo la puzza di muffa che mi aspetta a casa! E quanto a vestiti smessi, sto resuscitando gli avanzi ancora consumabili di 10 anni fa, quando ero agli inizi della mia carriera di precaria e me la passavo non dico meglio, ma meno peggio di ora. Almeno una cosa sono riuscita ad ottenerla dalla sagrada familia : non mi stracciassero le ovaie e non si azzardassero a farmi troppe domande perché, alla mia veneranda età, sono ancora precaria e nemmeno in coppia, scoppiata in tutti i sensi. Esigo rispetto e che nessuno si azzardi ad accostarmisi con pelosaggini varie ed eventuali, perdio!

  2. Miss tricky says

    Stesse sensazioni che provo anche io quando torno a casa!

  3. fra says

    è bellissimo il tuo articolo

  4. disagio says

    ma quale resistere dobbiamo insorgere per dio o alla fine ci annienteranno tutt*..Il nostro resistere assomiglia molto di più a un sopravvivere..Ma che altro dobbiamo aspettare?zombies di tutto il mondo uniamoci.

  5. laura says

    amaro e malinconico. E io vivo le stesse cose, un po’ più a Sud… ancor più amaro, ancor più malinconico..

  6. cloe says

    potrei averlo scritto io a parte qualche particolare, e ora mi vien da piangere per la rabbia.

  7. michela says

    eretica hai ragione…è un momento difficilissimo e bisogna tenere duro..reistere!anche perchè non c’è un’altra via…dobbiamo passarci attraverso e intanto godere delle piccole cose,ma non perchè c’è la fame nel mondo ma semplicemente perchè sono belle.