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Esiste un femminismo giustizialista?

Rifletto. Sulla comunicazione e la violenza sulle donne. Non è solo un problema di immagini da usare, sostituendo l’agire delle donne ai lividi che ti presentano solo come vittima. Esigendo strumenti di costruzione delle vite e non norme repressive. Esigendo autonomia e risorse e non sorveglianza. Chi ti tutela ti possiede e chi ti possiede ti impone le proprie regole. Avallare l’intrusione di soggetti tutelari nelle nostre vite non ci libera ma ci imprigiona. Lo vedi quando ti rendi conto che colui il quale dice di volerti difendere nell’unico momento in cui legittimi il suo ruolo, tutto giocato sulla tua pelle, quando alzi la testa e ti ribelli allora ti reprime nelle piazze. Affidarsi e avallare norme a tutela diventa il metodo usato da chi ci usa per ottenere più potere. Donne o uomini che siano.

Non è un caso se lo stesso Stato che evocava la “certezza della pena” in relazione ai reati di violenza contro le donne poi però imponeva altre norme liberticide a restrizione delle nostre scelte. Ostruzionismi all’uso della pillola del giorno dopo e alla pillola abortiva, la ru486. Applicazione resa sempre più difficile della legge 194. La legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Il dibattito per niente laico sul testamento biologico e la pervasività dell’azione dello Stato nelle nostre scelte, nelle nostre vite, in altri aspetti più o meno importanti della nostra quotidianità.

Non è a caso se lo Stato in un certo periodo diceva di voler difendere “le nostre donne” (ad escludere le prostitute e le migranti che se anche vittime della tratta finiscono dentro un Cie) e così facendo legittimava le ronde ovvero sistemi di controllo delegati a chi sulla base dei propri pregiudizi voleva svolgere una azione di sorveglianza sulla nostra moralità. E poi le leggi liberticide invocate a violazione della nostra privacy, il teknocontrollo, la presunzione di colpevolezza per tutti i cittadini e le cittadine per cui dovremmo essere felici di essere tekno-sorvegliati su internet, attraverso mille telecamere, tutto in nome della nostra “sicurezza”.

Parliamo di violenza sulle donne e bisogna ricordare che fino al 1996 lo stupro era un reato contro la morale e non contro la persona, che si divideva in violenza carnale e atti di libidine, per cui un processo misurava i centimetri di penetrazione della vittima per stabilire se si trattasse di stupro o “solo” di atti di libidine. Fino a quel momento – leggo – si puniva lo stupro solo se la vittima riportava gravi lesioni e altrimenti c’era il matrimonio riparatore (esistente fino al 1981) rimesso in discussione a partire da Franca Viola che non volle saperne, denunciò e ottenne la condanna del suo stupratore.

Negli anni, le norme che riguardano la violenza sulle donne, hanno trovato una opposizione che viene attribuita più in generale al gender backlash. Numerose fonti antifemministe sostengono per esempio che esista culturalmente una specie di inversione dell’onere della prova che capovolga il principio di presunzione di innocenza e lo trasformi in presunzione di colpevolezza (in ambito penale – perlomeno in Italia – esiste la presunzione d’innocenza per qualsiasi reato e di fatto non esiste l’inversione dell’onere della prova). Si sostiene nelle stesse fonti che avvenendo lo stupro spesso non in presenza di testimoni sia sufficiente la parola della presunta vittima per ottenere una condanna.

L’onere della prova a carico della persona accusata è un fatto che in realtà riguarderebbe una tipologia di reato nel campo del lavoro (Attualmente se licenzi una persona e questa contesta il licenziamento è il datore di lavoro che ha l’onere della prova).

La legge del ’96 viene “aggravata” dal governo di centro destra ultimo scorso nel tempo in cui prima fu reso impossibile il patteggiamento per questo genere di reati e poi si stabilì la carcerazione preventiva a seguito di una accusa. Sulla carcerazione preventiva per lo stupro di gruppo si è espressa recentemente la corte della cassazione e l’idea che la carcerazione preventiva in quelle circostanze fosse contraria alle regole costituzionali ha trovato d’accordo più soggetti, di qualunque area ed estrazione.

Non altrettanto si può dire in relazione a casi di lunghe carcerazioni preventive a seguito di episodi repressivi che hanno riguardato e riguardano le persone arrestate per le manifestazioni a Genova 2001, per la NoTav e in altre situazioni del genere.

Viene comunque omesso nel corso del dibattito sulla questione dello stupro un tema fondamentale: ovvero quello che dovrebbe di volta in volta stabilire a fronte dei vari livelli di pericolosità denunciata come, in attesa del compimento di un processo, la vittima o presunta tale possa essere sottratta a eventuali ritorsioni.

Proseguendo nel ragionamento: a fronte di eclatanti casi di assoluzione si assiste anche a qualche condanna che suscita non poche polemiche. Una tra tutte: quella per “sguardi insistenti”. Chi offre le proprie contestazioni specifica che l’affermazione di una donna che dichiara di essere stata guardata in modo molesto sia troppo poco per ottenere una condanna. E c’è chi dice anche che una sentenza del genere rappresenti una esagerazione ovvero non consentirebbe più di guardare una persona che ti attrae. Quello che io capisco è che se ogni donna di Palermo che riceve una tàliata decidesse di denunciare allora tre quarti della popolazione maschile palermitana finirebbe davanti ad un giudice.

Ciò che è chiaro comunque è il fatto che mentre questo genere di valutazioni vengono fatte da antifemministi e gruppi che si occupano di questione maschile e altri che si occupano di tutela della paternità, ciascuno in relazione alle proprie cause, le donne che sollevano obiezioni circa la piega autoritaria che sta prendendo piede in Italia in qualunque direzione, ivi compresa quella che riguarda le leggi contro la violenza sulle donne, vengono stigmatizzate – e lo stesso è stato fatto negli Stati Uniti (Stupro: storia della violenza sessuale, Joanna Bourke, edito Laterza) – come pseudo femministe o donne/femministe che si identificano con il maschio (lo stesso si dice delle donne che si occupano di aggressività femminile o di violenza delle donne).

Questo più o meno il contesto – la cui esposizione può trovarvi d’accordo o meno – ma a prescindere da queste premesse è necessario riassumere quella che è l’attività di informazione/comunicazione cui assistiamo o che produciamo su questa materia.

I media, ovviamente, non sfuggono all’andazzo autoritario. Anzi. Lo propongono, lo propagandano, lo legittimano e lo partecipano a piene mani. Se i media mainstream risentono di una schizofrenia che vede da un lato ministri e governanti esprimersi immaginando orribili soluzioni di castrazioni chimiche o pene infinite ed eterne e dall’altro giornalisti – spesso dello stesso schieramento politico – orientare il dibattito con tesi innocentiste (più dura la previsione della pena e più grave sarà il dibattito contro le denuncianti) e con quell’eterno “anche le donne lo fanno” (cosa che nessuno nega) brandito come i movimenti di estrema destra brandiscono le foibe come intercalare per ogni discussione che non si è in grado di sostenere, i media non mainstream, invece, incluso anche molte fonti web, ricavano spazi di visibilità seguendo la scia di showtime televisivi spazzatura, giocando in difesa contro le tesi innocentiste, declinando la lotta contro la violenza sulle donne in modalità colpevoliste, reclamando giustizia giusta ma pure quella ingiusta, giustizia e basta, se la parola giustizia può mai evocare un unico significato valido per tutte le occasioni, e anche molti blog, spesso lo è stato anche il nostro, restano schiacciati in questa dimensione che diventa giustizialista anche quando parla d’altro.

Finisci per sembrare di destra anche se sei anarchica, di sinistra, anche se le soluzioni autoritarie non ti piacciono. Finisci per fare il tifo per i giudici anche se quegli stessi giudici condannano compagni e compagne prese/accusate/giudicate perché manifestanti, presunti sovvertitori e sovvertitrici dell’ordine pubblico. Finisci per parlare una lingua che neppure ti appartiene e immagini che la “tutela” sia una soluzione e che il “carcere” sia quella gran cosa che invece non è. Finisci per diventare l’ulteriore megafono di quei giornali di destra e sinistra che parlano di “sicurezza” avendo il metro di misura di un leghista o finisci anche per cadere nella trappola dell’audience da indignazione per cui produci o condividi notizie che inducano le “masse” a dividersi con logiche binarie, buoni e cattivi, con schieramenti tra presunte vittime e presunti carnefici e trascurando l’analisi della complessità proposta in qualche caso con tesi giustificazioniste e liquidate come tali anche da chi dovrebbe guardarci dentro e quanto meno verificare. E la somma di tutto questo diventa una corsa al linciaggio, che non è quello dei forconi adoperato dalle folle fisiche sotto la casa di qualcuno ma è una folla di fonti virtuali con forconi virtuali che spingono in direzione della galera per ogni tipologia di persone e questo realizzando un processo mediatico anche quando odi i processi mediatici, giacché non sono tali solo quelli che stanno dentro la tivù, con opinionisti che certo non sono lo psichiatra, l’intellettuale, la scrittrice e la criminologa d’assalto ma sono Rosaria, Pino, Francesco e Genoveffa che fidandosi dei media mainstream invocano ghigliottine ed evirazioni in pubblica piazza.

Basta vedere come funziona su facebook dove se  condividi la notizia di cronaca che parla di una violenza contro una donna parte la raffica di commenti pieni di odio che esprimono solo un’idea di giustizia che somiglia ad una scorreggia e se la metti a tacere ti dicono che ne hanno diritto. Il sacrosanto diritto di scorreggiare su facebook sancito dalle regole del web 2.0 che servono a condividere l’odio travestito da “indignazione popolare” invece che i ragionamenti e le analisi.

Non c’è cosa peggiore che prendere parte ad un dibattito che si reputa sbagliato o provocarlo. Non c’è cosa peggiore che usare la violenza sulle donne, per esempio, come elemento che unisce tutte le donne ed esclude – nei fatti – gli uomini, immaginando che gli uomini possano soltanto chiamarsi fuori, scansare le critiche prendendo le distanze, essere invitati a parlare in quanto presunti responsabili, colpevoli a priori, a difendersi dicendo “no no, io non c’entro” e giù gli applausi, scambiando la questione maschile per una questione criminale, e che gli uomini che osano dire un ma, un bhé, un però, incluso i più antipatici, non condivisibili e opinabili, vengano vissuti come complici. Complici e basta, senza necessità di ulteriori approfondimenti.

Non c’è incoerenza maggiore che produrre, così come noi, anch’io, spesso abbiamo fatto, una enorme quantità di post su temi antiautoritari per poi legittimare l’autoritarismo giocato sulla nostra pelle sapendo come sappiamo che la nostra attività prevalente è quella di analisi della comunicazione e che produrre cultura non favorevole alla violenza sulle donne non può essere e non è affatto replicare i rutti e le schifezze prodotte dall’indignata presentatrice tivù.

Non siamo giudici, non siamo poliziotti, non facciamo processi, facciamo altro, ci interessa la comunicazione, la cultura e da sempre abbiamo analizzato testi e immagini prescindendo dalle persone citate. Abbiamo raccolto e dettagliato casi di cronaca per analizzare il fenomeno e leggerne una possibile soluzione. Abbiamo collaudato metodi di decostruzione di testi scritti da pseudogiornalisti e nelle decostruzioni non serviva evocare l’intervento dello Stato. La cultura è cultura ed è una soluzione che precede qualunque tipo di proposta legislativa. La cultura non è una banale replica dei programmi morbosi in cui si spettacolarizza lo stupro, il femminicidio, fino a condurre con mano e con soddisfazione lo spettatore alla decapitazione dell’accusato, realizzando un effetto catartico che rivela il falso, che dovrebbe soddisfare un bisogno di giustizia sociale che non c’è, non esiste, perché se io sono precaria, subisco una riforma del lavoro terribile che smantella definitivamente lo stato sociale e scendo in piazza e mi ribello e ricevo manganellate da mattina a sera non posso compensare il bisogno di giustizia applaudendo all’impiccagione di un uomo qualunque.

Ed è questo che sono diventati i casi di cronaca di violenza sulle donne in Italia, infatti, puro intrattenimento, surrogati, palliativi, a fronte di una giustizia sociale inesistente, spostando il piano della discussione, usando ancora una volta le donne per massacrarci ancora e di più, per orientare il dibattito a legittimazione dello Stato Autoritario, a usare donne e uomini, colpevoli, innocenti, a costo di mandare in galera uno che poi non merita neppure due righe per dire mi dispiace, a costo di sbattere in galera un rom o di incendiare un campo nomade, tanto che importa, è uguale, per saziare la bestia e produrre uno spettacolo a reti unificate, blog compresi, che ci fanno ritenere fortunate a vivere in Italia.

Allora è mia opinione che bisogna riprendere il filo del discorso e tenere conto di tutte queste cose. Ne voglio tenere conto io che so quanta responsabilità serva per fare comunicazione, giacché la rammento ad altri, e prendo le distanze dai toni nazional/patriottici, dal piglio strappalacrime, dai facili cliché, dagli stereotipi per cui sono tutti brutti, sporchi e cattivi, dalla demonizzazione di chi esprime opinioni contrarie alla mia, dai luoghi comuni, dalle cacce alle streghe in generale perché se voglio contribuire a creare un clima culturale che non me le imponga allora dovrò fare attenzione a che nessuno le subisca. Perché fare cultura significa incidere in una crescita di qualunque tipo, risvegliare sensibilità senza produrre uno schema ideologico e una propaganda che sposa il linguaggio della richiesta di tutela (non più della rivendicazione), del vittimismo, dei buoni sentimenti, dei processi tv infarciti di dettagli morbosi che poco c’entrano con il dolore e con la vita di tutti i giorni.

Fare cultura vuol dire riuscire ad accreditare la tua versione dei fatti mentre fai attenzione a non prestare il fianco e a non legittimare la mentalità reazionaria di donne e uomini che ancora pensano che il mondo vada diviso in branchi muniti di forconi in cui il linciaggio è l’unico metro di espressione in-civile. La cultura non è ciò che produce un appiattimento cronico, o che determina una visione binaria, tutto bianco o nero, tutto superficiale dove la consapevolezza maturata rispetto ai problemi equivale a zero. Cultura offerta attraverso la comunicazione vuol dire che quando parli di violenza sulle donne analizzi la complessità certamente senza scadere nel giustificazionismo e senza legittimare auspici di impunità, vuol dire però che non descrivi lui, quello che viene identificato nel carnefice, come fosse un mostro perché i mostri non esistono e le cose sono tanto più complesse di così.

Perché nella comunicazione misuri il punto di partenza, ovvero ciò che vuoi promuovere, la modalità di diffusione e l’obiettivo. E noi cos’è che vogliamo vendere? L’idea che esista una donna fiera e determinata che supera tante difficoltà o vogliamo vendere l’idea di un s-oggetto vittimista la cui dignità è piegata alla richiesta di tutela?

Possiamo immaginare di lottare contro una discriminazione senza realizzarne altre? Quello che facciamo oggi, anche noi – si – determina l’Italia che vogliamo, che immaginiamo e con quell’Italia dobbiamo farci i conti, perciò bisogna assumersi la responsabilità di ciò che si comunica affinché si realizzi qualcosa di meglio.

Tutto ciò è oggetto della mia riflessione. Vorrei sapere cosa ne pensate perché davvero non vorrei che domani qualcuno possa dire che in questi anni sia sorto un femminismo “autoritario” o “giustizialista”, conseguenza di una più generale deriva giustizialista, perché – in ogni caso – a quel femminismo io non appartengo.

Posted in Comunicazione, Critica femminista, Pensatoio, Scritti critici.


7 Responses

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  1. Tiresia says

    Ivaneuscar ha già detto praticamente tutto ma mi permetto di calcare sul discorso del “moralismo” e sul fatto che il punto focale sia quello.
    E’ giusto che un movimento sia soggetto a riflessioni autocritiche proprio per scongiurare la minaccia del “giustizialismo” ma, a mio modo di vedere, allo stesso tempo deve anche fare molta attenzione agli attacchi esterni.
    E’ ovvio che vi siano certi atteggiamenti tristemente ricorrenti in ogni agglomerato umano ma non dovrebbero essere considerati parte degli ideali di nessun movimento che anzi dovrebbe fare il possibile per autoregolarsi.
    Il desiderio di punizione è sicuramente un atteggiamento comprensibile da parte di chi vive nella paura di subire una determinata minaccia (perchè in effetti la società stessa lo mette in quella posizione) ma è abbastanza facile distinguere chi vorrebbe risolvere questo problema per tutti e chi invece è spinto dalla voglia di essere lui a prevaricare.
    In questo senso è giustissimo non volersi arrogare il ruolo di giudice severo ma è anche lecito prendere le distanze da chi invece se ne fa portavoce a prescindere dal gruppo di appartenenza.

  2. Paolo84 says

    X ivaneuscar
    Io sono contrario alla pena capitale, ciò che penso l’ho già scritto. devo dire però che umanamente comprendo i sentimenti di vendetta e di odio che si provano davanti a chi si è reso colpevole di stupri, torture e reati particolarmente odiosi..certo li comprenderei di più se venissero dalla vittima o dai parenti della stessa e non da persone totalmente estranee ai fatti che approfittano di internet per vomitare la loro ancorchè legittima rabbia. Ecco penso che certa rabbia sia legittima (anche se va tenuta a bada, del resto la legge dovrebbe servire in teoria proprio ad evitare i “giustizieri della notte”). La rabbia diventa illegittima oltre che orrenda quando sfocia nel razzismo, nella condanna indiscriminata di un popolo o di un’etnia nel caso il colpevole o presunto tale sia un immigrato o appartenga ad una minoranza..(mi vengono in mente i linciaggi raccontati nel film Rosewood ispirato a dei tragici fatti realmente accaduti). Sulla vendetta, oltre ad una vasta letteratura e filmografia, voglio consigliare la novella di Stephen King Maxicamionista contenuta in Notte buia niente stelle

  3. ivaneuscar says

    Trovo utile e interessante la riflessione svolta in questo post.
    Di recente sul mio blog mi era capitato di commentare il libro di Valeria Ottonelli sul “femminismo moralista” e di riflettere quindi sulle insidie che il “moralismo” rappresenta per un vero processo di liberazione e di autodeterminazione. Il problema – checché ne dicano i conservatori, i sessisti e i “tradizionalisti” – non sta nel “femminismo” ma nel “moralismo”, che rischia di essere un cavallo di Troia del conservatorismo stesso (col suo vizio di etichettare i soggetti dominati, distinguendoli in “buoni” e “cattivi”, “virtuosi” e “reprobi”) all’interno del discorso di liberazione.
    La riflessione svolta qui sul “femminismo giustizialista” esamina un pericolo analogo e parallelo. E pone giustamente l’accento sulla critica delle “culture”.
    I movimenti di liberazione – e che si pongono a presidio dell’autodeterminazione – dovrebbero forse fare particolarmente attenzione al rischio, sempre presente purtroppo, di farsi invischiare (o “arruolare” talvolta) nei discorsi e nelle pratiche di chi vuole soltanto riproporre le logiche della dominazione, aggiornandole quel tanto che basta per adattarle allo spirito dei tempi.
    L’esempio che fai, circa certe reazioni tipiche cui si assiste su Facebook, è illuminante. Ho potuto notare anch’io che anche partendo dalla migliore delle cause, come la condanna della violenza sulle donne, o la condanna delle pratiche speciste, ecc., là si ricevono spesso risposte e “feedback” che sono nel segno della violenza, o meglio impregnate di quello che definisco lo “spirito del pogrom” (o del linciaggio), con una miriade di commenti che – con variazioni infinite sul tema – inneggiano alla pena di morte o alla mutilazione o alla tortura dei “colpevoli”, il più delle volte scendendo in crudi (e “sadicamente” compiaciuti) dettagli sul modo più opportuno per “punire” il colpevole o presunto colpevole di turno (che può essersi reso responsabile di stupro, pedofilia, maltrattamento di animali o quant’altro: non cambia la reazione tipica degli “utenti” dei social network).
    Questa “voglia di pogrom” dovrebbe far riflettere, come giustamente si dice in questo post. A mio avviso infatti non si tratta di un “dettaglio” sul quale sia possibile sorvolare. I processi di liberazione e di autodeterminazione rischiano di venire fraintesi e stravolti, se non si vigila e non si riflette criticamente su questo “spirito” (iper-giustizialista, potremmo definirlo) col quale dobbiamo tutti/e fare i conti.
    Ritengo che quella “voglia di pogrom” che si scatena in reazione a certe notizie (e si moltiplica in certi luoghi, virtuali e non, come se si trattasse di pratiche “tribali” o identitarie che si autoalimentano) sia non un “incidente di percorso” ma uno dei fenomeni che segnalano proprio il persistere della cultura della dominazione che a sua volta alimenta la violenza sulle donne. Il discorso pubblico riguardante la richiesta di “punizioni esemplari” e atroci a danno dei colpevoli (o presunti tali) a mio parere non è che uno dei tanti volti della “cultura” della dominazione, che finisce per “appropriarsi” anche della vittima di quella dominazione stessa, sfruttando la sua condizione di vittima e la richiesta di giustizia di quest’ultima (esplicita o implicita), per ri-legittimarsi, ancora una volta. Come se insomma la punizione dovesse (e non potesse che) essere interna al discorso pubblico della dominazione, che – in quest’ottica – non va messo in discussione ma solo “riveduto e corretto” perché sopravviva e si rafforzi.
    Contro la “barbarie” – ci racconta il discorso della dominazione – non si può che agire come “barbari”; i “barbari” non meritano che di essere trattati per quelli che sono, ecc.; e ne consegue che non si pone in discussione la dominazione in sé come illegittima, ma solo i rapporti di forze contingenti. Il che – se accettato acriticamente – rappresenta in realtà la sconfitta di qualsiasi discorso di liberazione e di autodeterminazione, condannato a essere rappresentato, nell’immaginario diffuso, come “impraticabile” (se l’unico risultato possibile è quello di invocare il “castigo esemplare”, o magari – a seconda della sfumatura adottata per preferenza personale – il “castigo divino”, o l’intervento di qualche “giustiziere della notte” o del “cavaliere-buono-che-salva-la-donzella-indifesa”, confermando le “sacre tradizioni” e i ruoli che queste ci prescrivono).
    Che poi ogni discorso critico sulla realtà debba ancora oggi passare per l’imperativo di “sorvegliare e punire”, e che qualsiasi devianza porti l’opinione pubblica ad esclamare in coro, come per reazione automatica: “In prigione, in prigione!” (senza che si riescano a immaginare mai percorsi diversi), è un altro argomento da proporre alla pubblica riflessione, magari in altra occasione.

  4. luziferszorn says

    esempio di “femminismo giustizialista”
    http://www.artrocketpopstudies.it/n-NrsCryBfem20111112.html

  5. Paolo84 says

    e anche i corsi di difesa personale possono essere utili, immagino

  6. daniela says

    Bellissimo, lucidissimo, utilissimo e importantissimo post (quanti superlativi, ma quando ce vò ce vò).

  7. Paolo84 says

    penso che il genere “rape & revenge” mi piace nei film e nei romanzi, nella realtà gli imputati di stupro devono subire un processo regolare come chiunque altro e se sono colpevoli scontare una severa pena in galera e la punizione gli serva anche per comprendere l’orrore di ciò che hanno fatto, se questo fosse garantito vivremo in un Paese più civile. Credo anche che il fenomeno delle “false accuse” denunciato dagli antifemministi non sia così esteso come vogliono far pensare, certo c’è qualche caso ma di solito una falsa accusa viene smascherata subito (gli errori giudiziari possono sempre capitare ma credo che la maggioranza della gente attualmente in carcere per stupro sia colpevole) Poi anch’io penso che le cose siano complesse e i mostri non esistano sebbene a volte gli esseri umani compiano azioni mostruose