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Un femminismo a puntate

Questo è il primo di una serie di post – così come ho fatto per il cyberstalking – che raccontino del femminismo provando a riscrivere con le mie parole quello che ho fatto in tanti anni di militanza e anche cyberattivismo. Perché la prima regola del femminismo è che non esiste un femminismo standard e che ciascuno può viverlo e rappresentarlo come meglio crede. Dunque parto da questo, da un punto di vista, il mio.

Il femminismo è un approccio, un punto di vista dinamico, una corsa che mi proietta in avanti, a partire da me. Partire da se’ non può voler dire prendere in prestito parole altrui giusto perché suonano belle, simpatiche, alla moda. Recitare il femminismo è già di per se’ una cosa che lo svuota di contenuti perciò la prima domanda che bisogna fare ogni volta che qualcun@ vi dice “tu non sei femminista, io lo sono perché sono donna” è: “ma tu, chi sei? che problemi hai? di cosa parli? quali sono le tue battaglie private? Da cosa o da chi ti stai liberando?“.

Perché se sei ricca e parli di precarietà mi stai solo rubando il diritto di autorappresentarmi esigendo di parlare al posto mio con parole che non mi riguardano. Se sei una fantastica ottantenne e parli di contraccezione e di sessualità senza dirmi chi sei, che storia hai avuto o hai nel tuo presente e perché ti interessi a questo esigi di sostituirmi nella rappresentazione di me stessa senza averne diritto.

Uno dei problemi frequenti nella comunicazione tra donne è proprio il fatto di parlare senza partire da se’, perciò qualche volta le parole sembrano stonate e altre volte diventa proprio difficile credere che la deputata avvolta nel fine abito da 1000 euro possa capirci qualcosa di precarietà.

Non è settarismo ma è una redistribuzione corretta del diritto alla autonarrazione che poi è quella cosa che dà forza alla lotta senza la quale la lotta diventa niente, priva di passione, priva di un interesse reale, con tendenza alla moderazione e alla conciliazione tra le parti. Priva di qualunque volontà di opposizione. Semplicemente finta, noiosa, ipocrita, professionale.

Un femminismo che non poggia sulla propria esistenza è qualcosa attraverso il quale si sviluppano delle “professionalità” ma la professione della femminista non esiste e dunque chi esige di poter dare giudizi circa il presunto estremismo di chi invece si autorappresenta non è credibile.

E’ una colonizzazione del pensiero politico. Una forma egemonica per occupare lo spazio pubblico. Una barriera che impedisce alle donne di dire quello che pensano perché immaginano che la politica sia una cosa lontana, che non le riguarda.

La forza del femminismo derivava da questo e la istituzionalizzazione dello stesso ha rafforzato la convinzione che il femminismo sia una cosa cattiva, lontana dalle donne comuni. Ricominciare a parlare a partire da se’, in pubblico, è una cosa essenziale.

Io sono una cittadina italiana, anzi siciliana, sessualità xy, madre, precaria, adulta, laica, atea, e molte altre cose. La mia lotta parte da me. Non posso parlare di altro che di me. Dei miei bisogni e delle mie esigenze e solo la coincidenza tra il mio personal/politico e quello di altre può dare forza collettiva e dimensione politica di rivendicazione pubblica ai miei bisogni.

In questo c’entra molto anche l’accettazione delle diversità, la consapevolezza che siamo tutte diverse le une dalle altre e che possiamo ritrovarci insieme su alcune questioni senza avere mai la presunzione di poter rappresentare tutte.

Parlare di violenza sulle donne, per esempio, può essere un fatto che accomuna tante, perché la violenza tocca moltissime donne ed è la condivisione di esperienze, il disvelamento di segreti celati in quella nebbia fitta fatta di omertà, equivoci e fraintendimenti, che rappresentano un motivo per un legame, fatto di comprensione profonda, fatto di abbracci e comprensione per l’altrui dolore, che poi è il proprio.

Quando si parla di violenza sulle donne la prima cosa che bisognerebbe fare è ascoltare le donne che l’hanno subita affinché esse possano definire le proprie rivendicazioni. Se la proposta politica non parte da chi conosce il problema allora da chi?

Parlare di precarietà è un’altra cosa che accomuna tante, ma non tutte, ed è veramente difficile spiegare che non si può continuare a rappresentare le donne tutte con richieste lontanissime da noi, molto vicine a ideologie che parlano altre lingue, quelle delle imprese, invece che quelle di chi da quelle imprese viene sfruttata.

Chi sono queste deputate, ricche, benestanti donne, tutte appartenenti a generazioni pensionabili, tutte professioniste della politica o in altri settori, tutte probabilmente dotate di colf, badanti, baby sitter e quant’altro per la gestione dei lavori di cura, delegati ad altre donne rese schiave per liberare donne più ricche, che presentano proposte di legge e stringono accordi in cui si parla di conciliazione, flessibilità, e mille altre cose terribili che nel corso del tempo ci hanno reso più complicata la vita?

Le donne che hanno progettato un futuro anche per noi, non hanno forse avuto la presunzione di rappresentarci tutte? Non è questa forse la modalità che pare emergere dagli scritti di SeNonOraQuando? Non è un metodo a volte applicato anche nei movimenti?

Non è il metodo usato da chi stabilisce che tutte le donne abbiano caratteristiche precise che le differenziano dagli altri generi? Non so: materne, dedite alla cura, quiete e concilianti invece che aventi diritto a esprimere una propria personalità con esigenze totalmente diverse?

Non è molto “maschile” e da “pensiero unico” quello di sommare le donne sotto un’unica rappresentazione togliendo alle altre, quelle che hanno il coraggio di dire che non si riconoscono nella definizione che altre hanno dato di se’, il diritto ad esprimersi? Relegandole dunque ad una casistica descritta con termini quali “innaturali”, “estreme”, “anomale” eccetera eccetera. Non è un modo di definire un dogma e di dichiarare guerra alle eretiche o a quelle non ortodosse che osano vivere come pare a loro?

Perché i progetti di futuro si compongono insieme, in un dialogo costante e attento tra le diversità che dunque includono e non sono mai escludenti, includono a partire da posizioni affini anche in direzione di altri generi.

Dunque dimentichiamo anche il fatto che il femminismo sia una faccenda che riguarda solo le donne perché è un metodo, una filosofia di vita, una pratica quotidiana che può essere applicata a chiunque. Femminismo è la lotta a partire dalla mia voce, la mia esperienza, la mia vita.

Il femminismo trova un motivo di ribellione dopo aver decostruito i modelli che ci vengono imposti. E’ fondamentalmente antiautoritario e questa lettura delle cose viene applicata nei confronti di chiunque imponga qualunque cosa. Decostruire modelli imposti equivale a rintracciare quella parte di se’ che viene costretta a essere quello che non vuoi essere. Equivale a risolvere un disagio a partire dal fatto che quello che nella morale imposta, di derivazione sempre ideologica, è negativo per me diventa positivo.

Chi sei tu? Cosa fai nella vita? Cosa ti serve? Da dove parte la tua rivendicazione? Cosa ti dà fastidio? Cosa ti offende? Cosa ti opprime?

Per esempio: davvero nella vita di tutti i giorni i tuoi motivi di oppressione coincidono con quelli che ti vengono imposti dai media? O piuttosto non ti allontanano dai tuoi problemi canalizzando la tua indignazione verso obiettivi che neppure ti riguardano?

Qual è la tua giornata? Com’è la relazione tra te e il tuo compagno, la tua compagna, i tuoi figli, parenti, vicini di casa, colleghi di lavoro? Vivi in compagnia o da sola? Hai un lavoro? Non ce l’hai?  Studi? No? Riesci a fare quello che vorresti oppure no? Com’è la tua sessualità? Fai sesso? No? Vivi bene con il tuo corpo? Ti piaci? No? Hai mai subito violenza? Da chi? Uomini? Donne? Hai mai fatto un figlio? No? Ne vuoi uno? Non lo vuoi? Non ti passa minimamente per il cervello? Che lavoro fai? Che possibilità? Che prospettive? Sei cittadina italiana? Sei straniera? Eccetera eccetera eccetera…

A partire da te. Non dalla tua vicina di casa o dalle donne che incontri casualmente al mercato quando ti capita di fare la spesa o di distribuire un volantino. Sul personale costruiamo un dibattito politico. Sul personale si realizza relazione, si fa rete, sorellanza e mille altre cose. A partire dall’accettazione delle diversità e dal fatto che bisogna avere la consapevolezza che io non posso essere te e tu non puoi essere me, ma oggi, in questo momento, possiamo parlare e fare insieme tante cose belle.

Il resto viene dopo. Solo dopo.

Posted in Critica femminista, Fem/Activism, Pensatoio, Personale/Politico, Scritti critici.


3 Responses

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  1. Giulia Morris says

    Quello era il Femminismo prima d’essere inghiottito dai partiti…. (a me pare…)

  2. WhiteNoise says

    Grazie, bellissimo articolo…vorrei cogliere l’occasione per un ringraziamento molto personale a chi su internet permette di parlare di femminismo fuori dalle organizzazioni “finte, noiose, ipocrite, professionali” e dagli schemi di chi “recita il femminismo”. Tra questi e una società maschile che sembra ridicolizzare e ignorare ogni sentimento ed opinione che derivano dall’essere donna in questa società nessuno sembra “conoscere i problemi”…
    Tra due fuochi io personalmente mi stavo convincendo di vedere in maniera sbagliata, “innaturale”, troppo “personale” e quindi irrazionale, soffrendo per delle violenze che vedevo solo io. I miei bisogni non erano quelli delle “femministe”, nè i miei pensieri e i miei sentimenti, e le altre donne vi vedevano solo “odio per autorità”, per il dialogo addirittura, e orgoglio, quando non peggio…è difficile mantenere delle opinioni personali, individuali, dei sentimenti e delle aspirazioni diverse e poterli condividere, riuscire a costruire se stessi attorno a queste cose, e non contro, quando l’intero mondo sembra parlare un’altra lingua, che alla meglio cerca di indirizzare verso obiettivi che “neppure ci riguardano”…
    Vuol dire molto per me vedere che c’è uno spazio per un femminismo che sia “un metodo, una filosofia di vita, una pratica quotidiana”, una lotta personale e un’analisi che permetta alle donne di riscoprire loro stesse al di fuori da modelli esterni e obblighi morali, sociali, per tornare in possesso di un’identità e un’individualità che tante/i sembrano sacrificare quasi in maniera indolore e inconsapevole…grazie ancora per questo blog, è davvero il primo posto in cui mi è sembrato si parlasse nella “mia lingua”

  3. valeria cademartori says

    Non vi è dubbio che esistano differenze di classe, di condizioni di vita e di pensiero, tra donne. Ma, aldilà di queste, io credo fermamente che vi sia una trasversalità che ci riguarda tutte come genere. Tutte, dalle donne afghane, alle norvegesi, dalle africane alle svizzere.

    Ed è la condizione di subordinazione all’uomo e al suo sistema di organizzazione della società, che le donne di tutto il mondo vivono , con varie e differenti sfumature, dalle più violente ( nei paesi ancora a fortissimo “imprinting” patriarcale) alle più sottili e impalpabili ( nei paesi dove è esistita, e in molti casi ha vinto, una forte lotta di emancipazione dal pensiero unico maschile).

    E questa tendenza a “subordinare l’altra metà del cielo” da parte dell’uomo deriva, a mio avviso da un approccio strumentale che il sesso maschile ha storicamente messo in atto nei confronti delle donne ( e, sottolineo, di tutte le donne, di tutti i paesi, e di tutte le classi sociali).

    Per due motivi fondamentali, per come la vedo io:
    per la sua ( dell’uomo) progenie e per il suo piacere .

    L’organizzazione del lavoro è improntata su un protagonismo della figura maschile, laddove maternità (o paternità) sono considerati un “intralcio” , un lavoro a parte, un ostacolo al mondo del “lavoro vero”.

    E’ questo concetto e questa pratica che andrebbero scardinati innanzitutto, in ogni società, in ogni paese.

    La violenza sessuale infine, quella psicologica, quella culturale del pensiero unico maschile coinvolge tutte le donne, dalle benestanti alle più povere.

    Dunque per me non è un problema se, di fronte ad un’emergenza quale quella a cui la mentalità macista dell’era berlusconiana ci ha messe, un gruppo di donne, ricche o precarie che siano, organizzino una protesta , a cui tutte possiamo aderire, senza per questo sentirci un’entità, o un’identità unica e monolitica, o sentirci sopraffate autoritariamente dalle organizzatrici.

    Io, al tempo, ho aderito ad entrambe le iniziative. Perché, prima che ricca o povera, mi sento una donna, ossia un soggetto di genere portatore di alcuni bisogni, necessità, esigenze, che riconosco in tutte quelle del mio genere che sono nel mondo.

    Penso sempre che l’unione sia la forza ( e non un appiattimento identitario).

    un caro saluto a voi!!

    riflettiamo insieme

    un bacio

    Valeria