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Il corpo che vuoi: intervista a Judith Butler

Ieri ho scoperto la traduzione online di una parte di una vecchia intervista fatta a Judith Butler. L’ha pubblicata il sito Filopop, e la traduzione è a cura di Cesare del Frate. Nello stesso sito trovate una sezione gender e sessualità in cui potete leggere altri articoli molto interessanti. A proposito dell’intervista alla Butler quello che inevitabilmente mi ha colpito è quanto, nonostante risalga al 1992, sia terribilmente attuale. Ho chiesto se potevo condividerla qui e Cesare del Frate, con disponibilità massima, ha detto di si. Perciò grazie a Filopop, a Cesare del Frate e buona lettura!

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Il corpo che vuoi: intervista a Judith Butler

Le
performance queer, la militanza teatrale, come leggere Hegel e Foucault
per decostruire le trappole identitarie, la critica alle fobie sessuali
del femminismo anti-pornografia.

Judith Butler

Judith Butler

di Judith Butler

intervista di Liz Kotz

Ragazzi
nei panni di maldestre ragazze molto glamour, ragazze in quelli di
ragazzi machi e chic, ragazzi neri travestiti da donne bianche: il gender bending,
cioè il travestitismo artistico, un tropo centrale del Modernismo a
partire almeno da Duchamp, nonché da sempre pezzo forte nei cabarat e
negli spettacoli, sembra godere di una rinascita nelle gallerie d’arte
a livello globale. Dalla moglie che si spoglia mostrando un fisico
palestrato decisamente maschile di Mattew Barney, fino ai metamorfismi
di Chuck Nassey, c’è tutta una serie di esilaranti instabilità che
stanno venendo mappate nella proliferazione di giochi identitari.
Influenzate da diverse correnti intellettuali, critiche, di militanza
politica, queste esplorazioni dell’identità e del desiderio riflettono
la reinterpretazione delle relazioni fra sessualità, potere e
soggettività tipica degli ultimi decenni.

In questo fenomeno è di importanza cruciale il lavoro della filosofa Judith Butler, a partire dalla pubblicazione di Gender Trouble (Travagli di genere),
nel 1990. La filosofia di Judith Butler sta alla base di una nuova
ondata femminista che mette in questione le rigide dicotomie
sesso/genere, uomo/donna, etero/gay. Parliamone allora con lei:


Il tuo lavoro è enormemente popolare fra le giovani femministe,
lesbiche e gay, e fra chi è impegnato nelle varie forme di attivismo di
genere. La tua filosofia sembra offrire un’articolazione teoretica per
un sacco di pratiche culturali, artistiche, sessuali emerse a partire
dagli anni Ottanta.

Ho iniziato a scrivere Gender trouble
come un’indagine sul profondo eterosessismo di gran parte della teoria
femminista. Inizialmente pensavo il libro fosse rivolto alle femministe
eterosessuali, una sorta di monito e di sfida. Al contempo, il libro
non intendeva essere un’estensione del femminismo lesbico, e non lo è
nel momento in cui porta avanti una critica anche proprio di questo
femminismo, e in particolare una critica del modo in cui le comunità
femministe lesbiche sono diventate così ossessionate dal presidiare i
propri confini identitari, cosa che a me sembra una dismissione della
politica. Ho cercato di rivolgere la critica all’identità anche contro
certe nozioni dell’identità gay e lesbica.

Una
cosa che associazioni di critica politica e culturale come ACT-UP e
Queer Nation hanno cercato di fare, in modi diversi, è stato di rendere
la questione identitaria meno centrale. Entrambi i movimenti si sono
poi impegnati in performance artistico-teatrali a scopi politici, come
i die-ins (manifestazioni in memoria dei morti di AIDS) per le strade o
i kiss-in (assembramenti di uomini e donne che si baciano
pubblicamente) nei supermercati. È una teatralizzazione dell’identità,
una sua produzione performativa, evidentemente strategica, nessuno ti
chiede una patente identitaria quando partecipi a una riunione di
ACT-UP.

Non ne sono così sicura: penso ci siano problemi anche con questa
nozione di teatralizzazione, con le tipologie di conformismo che ne
possono risultare.

Quantomeno
la nozione di “queer” si supponeva fosse una in cui non aveva
importanza ciò che facevi, come lo facevi, o cosa sentivi nel farlo; se
volevi unirti alla comunità politica, eri libero di farlo. Penso ancora
ci sia qualcosa di importante nell’idea di queer: per un certo tempo
sentii una sorta di felicità per le possibilità offerte dal queer,
anche se ora mi rendo conto che non può funzionare da termine
onnicomprensivo. E chiaramente organizzarsi attorno al tema dell’Aids
deve andare oltre le strategie teatrali, e ci va. Ciò che è essenziale
capire è che i giovani erano particolarmente attratti dalla possibilità
della militanza teatrale.

Mi chiedo in che modo leggano Gender trouble i giovani che nella propria vita non hanno fatto esperienza del femminismo identitaria che tu critichi.

Beh, c’è un modo sbagliato di leggerlo, che sfortunatamente è quello più popolare. L’interpretazione
sbagliata suona pressapoco così: posso alzarmi al mattino, guardare
nell’armadio e decidere di quale genere voglio essere oggi.

Posso prendere un indumento e cambiare il mio genere, stilizzarlo, e
poi la sera posso cambiare ancora divenendo qualcosa di radicalmente
diverso. Così alla fine ti ritrovi è qualcosa di simile alla
mercificazione del genere, con l’idea che la performance di genere sia
una forma di consumismo.

E anche un atto della volontà…


da parte di un soggetto che tratta il genere in modo deliberativo, come
se fosse un oggetto lì davanti a me, quando invece il mio argomento era
che la formazione del soggetto e della persona presuppone
il genere, il genere non lo si può scegliere e la performatività non è
libera scelta né volontarismo. La performatività ha a che fare con la
ripetizione, molto spesso con la ripetizione di norme di genere
oppressive e dolorose, per forzarne la risignificazione. Questa non è
libertà, è il problema di come “lavorare” la trappola in cui
inevitabilmente ti trovi.

Nel mio saggio ho cercato di interrogare le dolorose ironie dell’essere fino in fondo implicati nelle forme di potere a cui ci opponiamo,
e ho cercato di chiarire quale tipo di strategia possa derivare da una
simile situazione. Penso non esiste un al di fuori del potere, e in
questo sono vicina a Foucault, ma non penso che per questo il soggetto
sia completamente determinato da relazioni potere.

Cosa
dire della ripetizione parodistica o della risignificazione come
strategie politiche possibili – come progetti culturali? Come
determinare ciò che costituisce una ripetizione sovversiva?

Prima
di tutto, non è per niente facile capire se qualcosa sia o meno
sovversivo. La sovversione non è cosa che si possa misurare o
calcolare, infatti, ciò che intendo per sovversione sono proprio quegli
effetti che sono incalcolabili. Penso che una parodia, per sovvertire
l’egemonia eterosessuale, debba al contempo mimare e traslare le sue
convenzioni. E non ogni imitazione è traslazione.

Matte2 Barney, the Cremaster cycle, 1994-2002.

Matthew Barney, the Cremaster cycle, 1994-2002.

Come mai, nella politica di oggi, c’è bisogno di tornare a Hegel?

Non
ho bisogno di tornare a Hegel per contribuire alla vita dei movimenti,
ma io personalmente ho iniziato a leggere la filosofia da quando avevo
14 anni, amavo sedermi con l’Etica di Spinoza e scrivere
commenti che nessuno avrebbe mai letto. E non devo giustificarmene con
nessuno. Penso sia importante esplorare questioni intellettuali che non
possano essere facilmente giustificate tramite una relazione diretta o
prevedibile con la politica. Non voglio pensare sempre vincolata da un
simile standard, e mi preoccupano gli effetti che potrebbero sortire da
una simile, rigida concezione della responsabilità politica.

Credo
che molte persone si trovino in posizioni paradossali: io sono un po’
stufa di essere queer. Mi hanno chiamata l’altro giorno per invitarmi a
una conferenza, e ho risposto: “sai che c’è?, non sono più queer”,
e ovviamente sono totalmente queer, come lo sono sempre stata da quando
avevo 16 anni, ma voglio dismettere il mio essere queer. Voglio dire, è
dura essere queer tutto il tempo, e mi piace Hegel. È doloroso per me
l’aver scritto un intero libro mettendo in questione le politiche
identitarie, solo per vedermi attribuire l’etichetta dell’identità
lesbica. O le persone non hanno realmente letto il libro, o la
commercializzazione delle politiche identitarie è così forte che
qualsiasi cosa tu scriva, persino quando si oppone esplicitamente a
quelle politiche, viene catturata in quel meccanismo.

Sono curiosa di sapere quanto i dibattiti sulla pornografia degli anni Ottanta hanno influenzato il tuo lavoro.

Molto.
Credo di aver preso molto seriamente la critica femminista alla
pornografia negli anni Ottanta, ma poi mi sono persuasa che era
completamente sbagliata. Una cosa che mi allarmava era il modo in cui
venivano descritte la fantasia e la psiche da femministe anti
pornografia come Andrea Dworkin. Lei pensa che le immagini abbiano il
potere di formare la psiche e i desideri, di produrre azioni in modo
quasi meccanico. Mi ha colpito che lei volesse disciplinare non solo le
rappresentazioni ma anche il modo il pensare della gente, i desideri e
le fantasie; lei vuole cancellare la distinzione etica fra fantasia,
rappresentazione e azione.

Sono
arrivata a pensare che il femminismo ha contribuito non meno della
cultura imperante a circondare di senso di colpa il sesso e le
fantasie, e penso che il mio essere lesbica in qualche modo mi portasse
ad oppormi a ciò che il femminismo prescriveva in quei tempi.
L’emergere del radicalismo sessuale, il pensare attraverso relazioni di
potere e sessualità tanto quanto la complessità dello scambio
butch/femme, sia stato molto importante per me, anche se poi sono
diventata abbastanza critica anche nei confronti di quel movimento.

Semplicemente non penso che la sessualità sia senza ombra di dubbio
quel terreno neutrale o che sia implicitamente liberatoria o
impeccabilmente onesta, e non ritengo debba essere l’unico focus della
riflessione politica.

Pubblicato originariamente su Artforum 31, n. 3, 1992.

Posted in Corpi, Fem/Activism, Scritti critici.