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L’omofobia e le pratiche intellettuali di distorsione fascisteggiante

Sizzla è un cantante della scena reggae che divulga testi omofobi e sessisti. Doveva fare un concerto a Bologna e anche lì, come è accaduto in tante altre città italiane, ha trovato opposizione di chi ha chiesto il boicottaggio del concerto ma prima ancora si è rivolto a chi gestisce il luogo destinato al concerto per dirgli che sporcarsi con un cantante del genere – in definitiva – gli sarebbe costato un bel po’ di clienti. La "ragione" ideale (per non dire la minaccia del danno economico e di immagine) ha avuto la meglio e i gestori in una nota che non è ne carne e ne pesce alla fine comunque dichiarano di aver rinunciato ad ospitare il cantante.

Della storia e di come è andata più o meno la discussione ha parlato Beatrice Busi su Gli Altri.

Puntuali come orologi svizzeri sono arrivati i commenti di chi descrive saluto romano e battute sessiste-omofobe pronunciate nei centri sociali di estrema destra come alti momenti di libertà di espressione.

Non poteva poi mancare il commento di tale Andrea Colombodi questa sinistra de noiantri tutta picci picci con la destra, un po’ liberal e con il piccone in mano ben attenta all’abbattimento di "steccati" di ogni tipo tranne quelli di chi sta al potere – che dalle pagine degli Altri ci delizia con un suo scritto a proposito degli antisessisti e degli antiomofobi come censori della libera espressione altrui.

Andrea Colombo, per capirci, è quello che dice che bisognerebbe andare verso "un superamento delle categorie destra-sinistra". Apertissimo a casapound, aderisce al pensiero revisionista che vittimizza i fascisti, dunque anche i sessisti e gli omofobi, perchè poveracci non riuscirebbero (e magari fosse vero!) ad esprimersi liberamente in nessun luogo senza incapare in taluni/e individui/e che coltivano ancora la pia illusione che in questo mondo il concetto di "libera espressione" non possa essere applicato su seguaci di hitler, discendenti di mussolini, istigatori al razzismo, e istigatori alla violenza su donne, day, lesbiche, trans. Egli ci presenta una discussione in cui distorce e criminalizza l’azione lecita di "boicottaggio" mettendola a confronto con roghi e attività censorie solitamente in uso in ambienti di destra. 

Beatrice Busi gli ha risposto con il pezzo che segue e che vi sottoponiamo. Buona lettura!

La follia della sinistra è non voler fare i conti con il sessismo

di Beatrice Busi

E’ alquanto curioso sostenere vivacemente che in Italia non c’è un problema di libertà di stampa e di informazione e scomodare altrettanto vivacemente la categoria di “censura” per definire un’azione politica di boicottaggio contro musicisti che inneggiano all’omicidio di gay, lesbiche e trans. A meno che non si ritenga – alla Renato Farina – che il paese sia ostaggio di potentissime e pericolosissime lobbies omosessuali e, di conseguenza, che non sia vero che gay lesbiche e trans sono persone socialmente discriminate. A meno che – e forse è questo il caso dell’articolo di Andrea Colombo, in prima pagina su Gli Altri di venerdì scorso – non si tratti di una provocazione buttata lì per godere del fugace piacere intrinseco alla polemica.

La struttura dell’argomentare usato da Colombo per lanciare l’allarme censura a sinistra, è quella che tipicamente, in logica, viene definita slippery slope, cioè del “piano inclinato” o “scivoloso”. La catena causale che regge l’argomentazione viene talmente stiracchiata ad ogni suo passaggio da condurre ad una conclusione che non è logicamente implicata nell’assunzione iniziale. Un esercizio retorico fallace che usa paragoni non pertinenti e somiglianze discutibili e che, offuscando le differenze tra i termini, finisce per impedire una comprensione reale dell’oggetto dell’argomentazione.

Infatti, in un enfatico crescendo che ipotizza le estreme conseguenze di una coerenza integralista che dal boicottaggio di qualcuno scivolerebbe inevitabilmente in picchiata fino alla censura di tutti, il gran finale dell’articolo di Colombo evoca una “sinistra impazzita” che festeggia facendo roghi di film e libri. Anche se la censura sulle opere intellettuali è tipicamente un’azione repressiva del “potere” che si esprime attraverso l’interdizione, vietando la diffusione e la distribuzione di un’opera, spesso in base a principi morali.

Mentre il boicottaggio è una pratica politica di protesta nonviolenta, utilizzata dai movimenti e dalla “società civile” in diverse forme, che in base a considerazioni etico-politiche promuove operazioni di comunicazione o controinformazione – come si diceva nel Novecento – e prevede, come strumento di pressione “dal basso”, il cagionamento di un danno economico e di “immagine” all’obiettivo del boicottaggio. Una pratica magari discutibile, ma distinguibile ad occhio nudo dalla “censura”.

Ma di cosa stiamo parlando davvero? Avevamo cominciato, su Gli Altri del 13 novembre, raccontando le mobilitazioni, nate in Giamaica e arrivate in Europa e negli Usa diversi anni fa, che hanno portato in questi giorni alla cancellazione di due date del tour della star del reggae dancehall, Sizzla Kalonji. Che sabato scorso sono diventate tre, perché un circolo Arci di Roncade, in provincia di Treviso, ha deciso di annullare il concerto previsto come “segno di vicinanza e sostegno verso la comunità glbt”, dopo aver appreso che il rastaman continuava a comporre liriche del tipo “Venite fuori! Il sangue dei froci scorrerà! Verrete bruciati! Uccidiamo i froci e lasciamo che ritrovino i loro corpi”, anche dopo essersi pubblicamente impegnato firmando il Reggae Compassionate Act.

Canzoni che forse non canterà più, perché venerdì scorso, dopo l’annullamento del concerto di Bari per le mancate autorizzazioni del locale nel quale doveva svolgersi, pare che Sizzla si sia di nuovo “scusato”: «Toglierò l’intolleranza dalle mie canzoni, perché siamo tutti figli dello stesso Dio», avrebbe detto all’organizzazione per i diritti umani Everyone che aveva presentato un esposto alla magistratura.

Qualcosa di simile al circolo di Roncade, comunque, lo aveva già fatto il Vox Club di Nonantola, ex casa del popolo, quando era circolata la voce di una sua disponibilità ad “ospitare” la data del 12 novembre, cancellata a Bologna. Perché il boicottaggio, prima che all’annullamento dei concerti, mirava a sensibilizzare i locali e gli organizzatori degli eventi musicali e la scena reggae italiana – che nessuno si è mai sognato di stigmatizzare nella sua totalità -, chiedendo un’assunzione di responsabilità e un impegno pubblico, sociale, di lungo periodo, contro la “promozione” dell’odio contro gay, lesbiche e trans.

Per questo i comunicati dell’Arcigay che hanno rivendicato come una vittoria l’intervento “legalitario” della questura di Bari sono politicamente discutibili. Ma questo non basta di certo a fare di Aurelio Mancuso un Dan Quayle, ex vicepresidente del governo Usa.
All’inizio della sua invettiva polemica, infatti, per criticare il boicottaggio del tour italiano di Sizzla e giustificare l’improprio paragone con l’ipocrita censura di stato, Colombo cita un episodio dell’inizio degli anni Novanta, il caso White House vs Gangsta Rap.

Dopo aver liquidato il fastidio per i testi dei rapper alla Tupac come roba da “signore”, sbirri e benpensanti – quel Tupac che, detto per inciso, era stato già condannato per stupro e altre varie amenità -, ricorda che «gli imputati risposero che quella era la cultura del ghetto e non serviva a niente e nessuno nasconderla o provare a censurarla».

Su questo, vent’anni fa, prima che la sinistra decidesse di impazzire in un’orgia di censure e proibizioni, dice Colombo che «concordavano i movimenti d’America e d’Europa», anzi «concordavamo tutti». Beh, forse non proprio tutti tutti. Almeno qualcuna riuscì ad andare oltre a questo facile schematismo d’ispirazione romantica, o a dire bene, rousseauiana.

In un bellissimo saggio, “Misogyny, gangsta rap, and The Piano”, la filosofa statunitense bell hooks, critica feroce del sessismo dentro e fuori le comunità afroamericane, racconta che durante i mesi di fuoco della discussione sul rap violento e misogino, numerosi media, indipendenti e mainstream, l’avevano contattata per chiederle una sua opinione, in quanto femminista nera. Fino a quando non si decise a rispondere che la “gangsta culture” è l’essenza della mascolinità patriarcale ed è la cultura popolare bianca e capitalista che insegna ai giovani neri che solo il predatore sopravviverà, la spietata “speranza” a buon mercato che offre loro il darwinismo sociale, pilastro “simbolico” dell’immaginario e dell’ideologia liberista.

L’opinione della “femminista nera” perse subito di interesse e nessuno la richiamò per partecipare a trasmissioni televisive o radiofoniche sul tema. La sua risposta, per nulla “assolutoria”, così spiazzante rispetto agli schieramenti in campo, per nulla adeguata alla sete mediatica di semplificazioni, divenne di colpo poco interessante.
Ma, oggi, discettando del pericolo di una censura arcobaleno, forse la domanda più interessante da porsi è: di che cosa non stiamo parlando?

Evidentemente, stiamo continuando ad evitare di parlare delle “nostre” complicità con il sessismo e l’omofobia. Perché la “sinistra”, da sempre, è piena di “benaltristi”, quelli subito «pronti a ridimensionare, sminuire, anteporre altre questioni o fare distinzioni estremamente capziose, pur di non fare i conti con una realtà che riguarda anche loro», come diceva un’attivista barese impegnata nella campagna di boicottaggio.

Per questo, a proposito di vent’anni fa e dell’argomentazione sulla quale, secondo Colombo, “concordavano tutti”, c’è anche un’altra storia da ricordare. Una storia che spaccò il movimento romano e la cui memoria è ancora molto viva tra le femministe e non solo.

Nel 1990, durante un concerto al Forte Prenestino, alcune compagne riconobbero sul palco e tra il pubblico amici e parenti degli stupratori di una compagna, Marinella. Gente che negava la violenza, che durante il processo – l’ennesimo “processo per stupro” – aveva detto che a quella puttana di Marinella invece era piaciuto di farsi scopare dal branco.

Le femministe decisero di cacciarli dal centro sociale, anche se quelli erano “ragazzi di borgata”, difesi da molti compagni perché “sono proletari che anche se sbagliano vanno capiti, perché sono proletari”. Questa era ed è la follia della “sinistra”, quella sempre pronta a trovare giustificazioni, a voler parlare d’altro, che non vuole fare i conti con il machismo, con il sessismo, con l’omofobia, o meglio, con l’eterosessimo.

Ma chissà, forse anche quella delle femministe romane fu una censura perbenista della “cultura del ghetto”. Una cultura che così tante volte coincide con quella del potere al quale, invece, la si vorrebbe “ontologicamente” antagonista, soggetto rivoluzionario per eccellenza. E chissà quanto tempo passerà ancora, prima che riusciremo a fare seriamente questa discussione.

—>>>Leggi la storia di Marinella

Posted in Anticlero/Antifa, Omicidi sociali.


One Response

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  1. Cat says

    Ottima la risposta di Beatrice Busi, più che fascisteggiante mi pare che il commento di Colombo sia di un qualunquismo disarmante. Del resto il relativismo pop travestito da intellettualismo libertario sembra essere la cifra distintiva del giornale di Sansonetti, che nonostante ospiti pure delle riflessioni importanti compensa abbondantemente con degli articoli così irritanti e inutili da far cadere le braccia. Come ha dimostrato egregiamente il caso Polanski.