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#DragaMama: Cara mamma

Di Federica Araco (da LavoroCulturale.org)

Lavoratrici instancabili, lontane dai propri cari, sospese tra la propria casa e un Paese spesso duro e inospitale, le donne dell’Est vivono in mezzo a noi come figure invisibili e silenziose, piene d’amore e di nostalgia.

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Draga Mama è la storia di una di loro, arrivata come tante dalla Moldova e impiegata nel lavoro domestico e nell’assistenza familiare.
Senza conoscere una parola di italiano, Valentina è arrivata a Roma dieci anni fa in pullman, con una piccola valigia e in mano un contratto per una finta azienda tedesca. Ha cominciato come badante presso una coppia di anziani che la trattavano come una figlia. Dopo un paio d’anni ha ottenuto i documenti e da allora lavora come collaboratrice domestica in diverse famiglie. Vive in un appartamento del Laurentino 38 nella periferia sud della capitale che condivide con altre donne moldave, tutte “madri a distanza”, come lei.
Molte di loro arrivano nel nostro Paese lasciando i figli nell’Est Europa, senza poterli vedere per anni.

Roma. Valentina nel giardino di una casa all’EUR. Secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali il principale settore di attività per i lavoratori di origine moldava è quello dei servizi pubblici, sociali e alle persone, che assorbe il 47 per cento degli occupati. (Foto di F.Araco).

La storia di Valentina non è molto diversa da quella di Tatjana, Petra, Nadea, Olga e di centinaia di altre mamme e mogli provenienti dai Paesi dell’Est Europa. Lavoratrici instancabili, lontane dai propri cari, queste donne migranti vivono in mezzo a noi come figure invisibili e silenziose, piene d’amore e di nostalgia.

Secondo il Quarto Rapporto Annuale Gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia pubblicato nel 2014 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, quella moldava è al settimo posto tra le comunità straniere presenti in Italia. I dati aggiornati al primo gennaio 2013 registravano 149.231 persone, prevalentemente donne (il 66,9 per cento) tra i diciotto e i quarantanove anni. Fonti non ufficiali riferiscono che gli irregolari sarebbero circa trecentomila. Il principale settore di attività per i lavoratori di origine moldava è quello dei servizi pubblici, sociali e alle persone, che assorbe il 47 per cento degli occupati.

Rispetto agli altri Paesi dell’Europa centro-orientale, l’incidenza delle donne nel flusso migratorio verso l’Italia è nettamente superiore, anche per via del contesto di impiego che richiede una manodopera perlopiù femminile. «Si tratta di una emigrazione molto anomala» scrive Lazzaroni in La famiglia chiusa nel welfare nascosto. «Nascendo dal tracollo di uno Stato molto strutturato e investendo persone non più giovanissime, assume i caratteri, come loro stesse dicono, di un “esilio” (il termine più ricorrente nelle interviste e nei colloqui è comunque “sacrificio”)».

Il dramma degli orfani sociali

Hînceşti, Moldova, settembre 2013. Una bambina torna a casa dopo il primo giorno di scuola. Il tasso di dispersione scolastica tra gli orfani sociali è molto elevato.

L’aspetto più doloroso di questo sradicamento riguarda l’abbandono dei figli che, rimasti nel Paese di origine, sono affidati alle cure dei mariti, quando possibile, dei nonni o di altri membri della famiglia. Questi “children left behind” risentono fortemente della mancanza del supporto affettivo e della presenza delle loro madri. Secondo l’International Organization for Migration, Mission to Moldova (IOM), nel Paese il 62,6 per cento dei bambini vive senza uno o entrambi i genitori. In totale, si stima che il fenomeno coinvolga 105.270 minori. Con una popolazione complessiva di appena 3,56 milioni di persone, queste statistiche evidenziano un contesto di grande disagio sociale e profonda disgregazione.

Le conseguenze sono drammatiche: attualmente circa cinquecento minori vivono completamente abbandonati a loro stessi e sono sempre più frequenti i suicidi, specialmente tra gli adolescenti.

I dati diffusi dal governo moldavo riferiscono di novantotto decessi e trecentoundici tentativi di suicidio tra il 2008 e il 2013, e il fenomeno è in preoccupante aumento.

È frequente, inoltre, che giovani di quindici-sedici anni partano in pullman da soli, senza soldi né documenti, per cercare di raggiungere i loro parenti in Italia e spesso finiscano nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Nella maggior parte dei casi le vittime sono costrette a prostituirsi, molte subiscono violenza fisica o psicologica, sono portate ai lavori forzati o entrano in circuiti criminali.

Il collasso del sistema dei servizi sociali nelle ex Repubbliche sovietiche ha lasciato un vuoto difficile da colmare e non sono molte le realtà in grado di intervenire in modo capillare per monitorare e arginare la situazione a livello nazionale. Nel 2008 l’IOM ha aperto in Moldova un centro che accoglie le vittime, reali o potenziali, della tratta. La struttura ha una capienza di ventiquattro posti, fornisce assistenza medica, giuridica, psicologica ed economica ai suoi utenti e offre corsi di formazione per il loro progressivo reinserimento nella società.

«Si tratta in genere di persone molto fragili e vulnerabili che nell’80 per cento dei casi hanno subito violenze domestiche o sono in fuga da condizioni di forte disagio in famiglia» spiega Alisa Harlamova (IOM). «Le categorie più a rischio sono le mamme single, i minori non accompagnati e gli orfani sociali, ma è in aumento anche il numero degli uomini sfruttati nei campi di lavoro in Russia, Turchia o negli Emirati Arabi. Ci sono poi gli enormi guadagni ottenuti forzando i disabili a chiedere le elemosina. Ogni anno salviamo dalla tratta circa cento persone: diecimila negli ultimi dieci anni, di cui tremila vittime effettive e circa settemila potenziali».

La Sindrome italiana

Roma. Una donna moldava al lavoro in una casa. Nel nostro Paese, molte badanti e colf provenienti dall’Est Europa sviluppano una grave forma depressiva di origine sociale diagnosticata per la prima volta nel 2005 da due psichiatri ucraini, Kiselyov e Faifrynch, nota come “Sindrome italiana”.

Molte donne dell’Est immigrate nel nostro Paese sviluppano una grave forma depressiva di origine sociale diagnosticata per la prima volta nel 2005 da due psichiatri ucraini, Kiselyov e Faifrynch, nota come “Sindrome italiana”. Secondo i loro studi, sarebbero almeno due i fattori scatenanti: per la prolungata lontananza dai propri figli, le madri provano un profondo senso di colpa e, nello stesso tempo, vivono il disagio di essere in un contesto spesso ostile, dove difficilmente riescono a integrarsi. La maggior parte di loro è quasi sempre sola, chiusa nelle case dove presta servizio e non parla del proprio dolore, nascondendolo sia ai familiari rimasti in patria che al resto della comunità.

Il dottor Giuseppe Ducci, primario del reparto di psichiatria dell’ospedale San Filippo Neri di Roma, tra il 2011 e il 2013 ha ricoverato settantaquattro persone provenienti dai Paesi dell’Est, su centosettanta casi di stranieri totali. In prevalenza donne romene, polacche, ucraine e moldave.

«In queste pazienti abbiamo riscontrato un quadro caratterizzato da una grave depressione con inibizione, blocco, rallentamento, tristezza vitale e sintomi psicotici, come per esempio fantasie di persecuzione. Le manifestazioni per le quali vengono ricoverati i maschi sono molto diverse, spesso riconducibili al consumo di alcool e di cocaina e con quadri psicotici piuttosto violenti».

Questa specifica forma di depressione femminile, continua il primario, è l’unico disturbo mentale legato alla stagionalità. «Il periodo in cui i ricoveri sono più numerosi va da settembre a dicembre, in coincidenza con l’autunno, la diminuzione delle ore di luce e il ritorno dalle vacanze estive trascorse con i propri cari». Far parte di una minoranza non integrata o scarsamente integrata è comunque un fattore di rischio per tutti i disturbi mentali, anche per quelli più gravi, spiega Ducci. «Trovarsi in un contesto nuovo e diverso da un punto di vista culturale e linguistico può far emergere i sintomi di malattie psichiatriche importanti. Ma, in generale, le situazioni peggiori riguardano le persone che sono state precocemente istituzionalizzate nei Paesi di origine».

«Occhi che non si vedono si dimenticano»

Dragă mamă, “cara mamma”. Una lettera-poesia ricevuta da una “mamma a distanza” moldava che vive a Roma da sua figlia, rimasta a Chişinău, in occasione della festa della donna.

Tatiana Nogailic, mediatrice culturale e presidentessa dell’Associazione donne moldave in Italia, fondata nel 2004, sostiene che gli orfani sociali e le loro madri colte da depressione debbano innanzitutto ricostruire un legame affettivo di amore e comprensione. «La soluzione non può essere solo il ritorno» spiega, «anche perché in pochi possono permetterselo. Il ricongiungimento familiare è certamente di aiuto ma la burocrazia è molto lenta e a volte i figli, dopo tanti anni di lontananza, faticano a ricostruire con le mamme un rapporto intimo. È indispensabile che entrambi imparino gradualmente ad affrontare e gestire le difficoltà relazionali e il dolore della distanza. Nello stesso tempo, è essenziale avviare processi di integrazione nei rispettivi Paesi di residenza».

Per accogliere e supportare la comunità immigrata, la sua associazione ha pubblicato Moldoveni in Italia, una guida per l’orientamento dei nuovi arrivati che offre informazioni preziose su servizi di previdenza sociale, sanatorie, procedure per il ricongiungimento familiare, contatti e numeri utili. «Le donne moldave conoscono bene i loro doveri: accudire gli anziani, mandare a casa i risparmi, pensare ai figli, ma dimenticano spesso i loro diritti. Molti datori di lavoro, per esempio, si approfittano di loro non mettendole in regola con il contratto o pagando meno di quanto pattuito. Noi abbiamo scritto sulla guida, a chiare lettere, a chi rivolgersi per chiedere aiuto in questi casi. Passando la gran parte del tempo in casa è, infatti, facilissimo che queste persone perdano il contatto con la realtà. Alcune sono segregate giorno e notte nelle abitazioni di anziani malati e non hanno né una vita privata né una vita sociale. Restano per anni come sospese, senza legami con la società italiana né rapporti con la Moldova». Un capitolo della guida suggerisce come mantenere un filo diretto con il Paese di origine. «Molte lavoratrici dopo dieci anni tornano a casa e si ritrovano anziane e sole» continua la mediatrice «noi dobbiamo dare loro delle opportunità per tornare arricchite e non svuotate».

In Italia da dodici anni, anche lei ha cominciato lavorando come badante. «Non ho visto mio figlio per due anni ed è stato molto doloroso conciliare il nostro rapporto» racconta. «Quando tornai a prenderlo aveva nove anni. Ricordo ancora la prima notte in cui dormimmo insieme: lui tremava e si svegliava perché aveva paura che io me ne andassi».

Occhi che non si vedono si dimenticano, dice un vecchio proverbio moldavo, ed è proprio questo il pericolo più grande nel rapporto a distanza tra una madre e suo figlio: «quel legame creato prima della partenza rischia di rompersi».

Hîncesti, Moldova, settembre 2013. Valentina nell’orto di casa.

Grazie al nuovo passaporto biometrico in uso dall’aprile 2014 i cittadini moldavi d’ora in poi potranno entrare in Europa per tre mesi con il visto turistico. «Siamo convinti che le ‘madri a distanza’ beneficeranno di questa maggiore apertura e che il nuovo regime di visti sia un contributo alla diminuzione del fenomeno migratorio irregolare, non solo verso l’Italia» spiega Antonio Polosa, Chief of Mission dell’IOM a Chişinău, che continua: «Gradualmente cambieranno le dinamiche tra i genitori emigrati e i figli rimasti in Moldova: viaggiando liberamente, si potranno gradualmente esercitare meglio le funzioni parentali e di assistenza materiale alla prole lontana. Nel medio e lungo termine è plausibile aspettarsi anche un incremento dei trasferimenti dei bambini in Italia (e in altri Paesi UE) nel quadro delle riunificazioni familiari che, con le dovute procedure e garanzie, è la scelta più opportuna per il minore».

Tatiana Nogailic è più pessimista a riguardo: «Le madri avranno la possibilità di invitare i loro figli in Italia, ma chi era in regola e aveva un alloggio autonomo già poteva farlo. Ma le badanti che lavorano nelle case degli anziani? Quale datore di lavoro permetterebbe a una donna di ospitare il proprio bambino? Inoltre viaggiare costa e, con la crisi che ha colpito anche questo settore, non credo che in molte potranno permetterselo. Temo che cambierà ben poco per queste persone».

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