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Costanza Miriano, la sottomissione, l’obbedienza e l’autodeterminazione

Da Abbatto i Muri:

Leggo su D di Repubblica una intervista a Costanza Miriano che parla del suo nuovo libro. Dopo “sposati e sii sottomessa“, “Sposati e muori per lei“, ecco che arriva “Obbedire è meglio“. Ho già scritto in passato che trovo sbagliato il fatto che qualcuno possa chiedere, come è stato fatto in Spagna, la censura dei suoi libri. Lei scrive, pubblica, io mi prendo il diritto di criticare. Parlo di questa intervista e non dei libri che non ho letto e non ho intenzione di leggere.

Partiamo dai titoli dei libri. Utili a vendere, certamente, contando anche sull’azione respingente che determinano, quasi che fosse trasgressivo e innovativo dire cose che vengono dette da secoli. Sottomettere deriva dal latino sub-mittere, mettere sotto, ridurre in suo potere. Il sottomesso o la sottomessa è colui/colei che sta sotto, cioè subordinato al potere di qualcun altro. I titoli dei primi libri della Miriano, anche se così potrebbe sembrare, comunque non si equivalgono. La sottomissione di cui parla, per quanto lei la rivendichi come scelta, non fa parte di un gioco di ruolo in una dinamica, più che legittima, di rapporto bdsm. Diversamente si userebbe il personal/politico, si rivendicherebbe il proprio desiderio a vivere quella esperienza secondo quei parametri senza farne derivare una imposizione normativa per le altre e senza lasciare immaginare che quel ruolo ci appartiene per “natura”. Perciò la sottomissione qui è raccontata come modalità passiva, come si trattasse, semplicemente, di una maniera per seguire le proprie “naturali” inclinazioni. “Muori per lei” invece è frase volta al recupero del ruolo epico, virile, dell’uomo dominatore, che comanda, dirige e conduce e sceglie di compiere grandi gesta per salvarla, tutelarla, proteggerla, difenderla. E’ il ruolo “attivo” del tutore/patriarca che tiene al sicuro le donne di casa, mogli, figlie, un po’ com’era un tempo. Legittimo, anche questo, nel senso che la dominazione è una scelta, purché sia consensuale e reciprocamente riconosciuta in senso attivo da entrambi i “soggetti” che la vogliono percorrere. Se diventa un obbligo sociale, con tanto di categorie normative che strutturano i “generi” tutto ciò si traduce, ovviamente, in oppressione.

Restituire appeal a questi ruoli, ovvero dire alle donne che dovrebbero rilassarsi e lasciare lui al comando perché questa sarebbe l’unica via di felicità, parrebbe essere, perciò, un tentativo di rimettere in discussione la rivoluzione di ruoli che oggi vede le donne attive, per nulla sottomesse e non comodamente adagiate ad aspettarsi la salvezza a partire da un uomo che, come sappiamo bene, il più delle volte non rispondeva affatto alle caratteristiche del valoroso cavaliere. Gli stessi uomini oramai sfuggono a quel ruolo di genere imposto e non hanno voglia di vivere costretti nella dicotomia tutori/carnefici, giacché perfino nei ruoli di dominazione sociale e relazionale, io guido e tu mi segui, guidiamo insieme, fatichiamo in due, oramai si tratta di situazioni interscambiabili. Perciò quegli argomenti, su molte persone, non hanno impatto positivo, non sortiscono alcuna fascinazione e men che meno, immagino, potrà interessare un ragionamento che parla di “obbedienza”.

Obbedire deriva dal latino ob-audire, letteralmente dovrebbe significare prestare ascolto a chi ti sta davanti, altri significati rimandano a concetti che parlano ancora di esecuzione di comandamenti altrui e sottomissione ai voleri altrui. Nella sua intervista la Miriano rivolge ancora un appello alle donne. Non anche agli uomini. Solo alle donne. Le donne dovrebbero imparare “l’arte della obbedienza” così come della “sottomissione”. Così manca quella reciprocità e l’alternarsi di ruoli che invece segue le inclinazioni di ciascuno nel bdsm. Diventa solo una imposizione rigida. Ma andiamo avanti.

Ricetta per la felicità: umiltà, tanta obbedienza, così come natura ci ha create, la saggezza ci avrebbe tramandato e si fa cenno anche ad una presunta vocazione, ai consigli, al marito. Sullo sfondo mi pare di udire le chiacchiere della mia vicina di casa, le donne non sono più come quelle di una volta, non sanno fare sacrifici, non sanno più “donare”, non sanno stare al proprio posto, sono egoiste, e bla bla bla.

L’intervista. Viene chiesto alla Miriano cosa significa obbedienza. Lei risponde quasi seguendo l’antico significato del termine obbedire. Cioè ascoltare chi ti sta di fronte e comportarsi di conseguenza. Viene da chiedere se la Miriano pensa che la donna che non esalta l’obbedienza tratti il partner (o la partner) malissimo, non ascolti mai, risponda come l’esorcista quando è di cattivo umore e faccia sempre e solo quello che vuole lei. Se questo non è uno spot per meglio rivendere le qualità della donna cattolica direi che sono frasi scontatissime, perfino banali. Di stereotipo in stereotipo potrei rispondere generalizzando e dicendo che le femministe, quelle belle che hanno elaborato ruoli, saperi, informazioni, possono essere definite come ottime ascoltatrici, empatiche e più che rispettose del punto di vista dell’altro. Perché non c’è modo migliore per diventare capaci di riconoscere l’altro se non quello di aver vissuto la difficoltà a vederti riconoscere per quello che sei. Io ti riconosco come diversa/o da me e ti ascolto, ti vedo, perciò non ti obbligo ad essere come me perché ti lascio liber@ di scegliere. E qui siamo ben oltre il concetto di “obbedienza” che reca con se’ il martirio, lo status della donna che tutto “dona” e sacrifica per gli affetti. Qui si parla di una scelta che va ben oltre i ruoli assegnati da chi descrive quel che è “cultura” come fosse “natura”, qui si parla di comprensione autentica, di scambio consapevole e intellettualmente onesto, di libertà reciproca. Non è questo forse un buon trucco per vivere una ottima relazione?

Non entro nel merito del vissuto della Miriano. Non mi riguarda. Mi spiace il fatto che parli della conciliazione lavoro/famiglia come di una faccenda epica che le donne dovranno accettare perché così è e sarà per sempre. Descrivere le donne (“ogni donna”) come una protagonista di una epica quotidiana rimanda al cliché che rappresenta l’eroismo delle donne in quelle cose che invece dovrebbero essere equamente e socialmente condivise. Tutto quello di cui parla sarà scritto nel suo cuore ma non nel mio, per esempio. Il “noi donne” che lei usa per parlare di cura e accoglienza trovo sia normativo giacché comprende anche me. Parla di se’ e invece parla a nome di tutte. Lo reputo un errore. Diventa per me un limite rispetto alla mia rivendicazione di libertà. Perciò io non dico a lei che è sbagliata per il modello sociale che ha scelto di interpretare. E’ lei che dice che io sono sbagliata perché rifiuto, categoricamente, l’assegnazione di un ruolo di cura per natura, la totale deresponsabilizzazione dell’altro genere quando si parla di affetti, anziani, figli. Mi pare, oltretutto, un livello di discussione davvero anacronistico perché la descrizione che lei fa, ponendo le donne su un piedistallo e assegnando loro una medaglia all’onere di figliare e curare, quasi che fossimo migliori giusto per questo, non corrisponde ad una realtà oramai molto diffusa in cui gli uomini hanno smesso da tempo di essere lontani dagli affetti a delegare la cura solo alle mogli. Li vedi autonomi nelle faccende, in casa, altrove, ad aver cura delle persone che hanno intorno e anzi chiedono di stare più tempo con i figli per quanto a loro, spesso, non sia neppure concesso.

Non credo in Dio, le regole che seguo sono altre, non mi lascio insegnare da nessuno cosa mi renderebbe schiava e cosa no perché ciascuno vede la propria schiavitù non in un ordine morale dettato da altri. E’ soggettivo. Così diventa soggettiva (poi collettiva) la richiesta di liberazione da una o più forme di oppressione, inclusa la visione morale calata dall’alto che vorrebbe obbligare me a sentirmi giusta o sbagliata a seconda del fatto che io vi aderisca o meno. Non condivido neppure il fatto che a noi umani mancherebbe una autorità, Dio, un padre che tutto vede e ordina, perché ne faccio volentieri a meno. Mi autodetermino, sono io che decido per me e se non posso farlo è perché qualcuno me lo impedisce. Lì vedo l’autorità, non come guida o indirizzo ma nel senso peggiore e più repressivo del termine. Dopodiché lei parla di religione, un suo sentire intimo, personale e io, davvero, lo rispetto e non voglio addentrarmi in una materia che non mi appartiene. Quello che so è che chi crede non dovrà imporre a me la propria visione delle cose, attraverso leggi che limitano la mia libertà di scelta in fatto di relazioni, sessualità, gestione del mio corpo, orientamento sessuale, diritti civili, aborto, perché io non impongo ad altri la mia.

Principio valido per tutt* dovrebbe essere  il rispetto per l’autodeterminzione. Io rispetto il tuo modello di vita se tu rispetti il mio. Il resto riguarda una discussione sulla libertà e l’autonomia degli individui lunga millenni che immagino non si esaurirà qui e ora. Buona giornata.

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