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#Paestum2013: restare sul vago per non essere di “nicchia”?

da Abbatto i Muri:

Leggo che a #Paestum, definito dalle organizzatrici “il secondo incontro deL femminismo italiano“, con autoesaltazione e autopromozione a unica voce femminista e conseguente invisibilizzazione di tutto quello che da lì non ha voglia di transitare, le donne si sono scazzate su due proposte (nel senso che non sono passate). Una “contro il decreto sul femminicidio in discussione in questi giorni in Parlamento, una legge che non è fatta “nel nome delle donne”; l’altra contro alcune norme della legge Bossi Fini (“è scandaloso che ci sia ancora il reato di immigrazione clandestina”)“. [Fonte: 27esimaora]

Leggo che la discussione è rinviata al blog che poi è la scusa che si trovava in altre assemblee di movimento che ho vissuto. Quando non si voleva decidere qualcosa, giusto per non dire che il metodo del consenso non funzionava, allora si facevano le barriere ostruzionistiche e si rinviava tutto alla mailing list. Infine la questione, qualunque cosa se ne dicesse virtualmente, perdeva il peso che avrebbe diversamente avuto e le singole proposte andavano in giro da sole, delegittimate, senza il supporto politico dell’assemblea.

Ricordo che alla fine del primo FemBlogCamp, tra una chiacchiera contro la repressione e un workshop e l’altro, quando le Sguardi Sui Generis presentarono un documento per raccontare l’impegno contro la privatizzazione dei consultori, lo smantellamento della #194, eccetera, nessuno disse che si trattava di un colpo di mano. Si votò per restare in rete, fare rete, creare rete, condividere in rete, moltiplicare in rete, viralmente, quel messaggio, si votò per lavorare su un intento comune. Chi aveva voglia di farlo lo faceva e chi non ne aveva voglia era uguale.

Perciò non capisco cosa o chi avrebbe perso dal fare uscire queste proposte dall’assemblea. O più proposte, anche differenti, perché un laboratorio politico fa emergere la ricchezza che c’è al suo interno e non teme di mostrare quelle differenze di cui si dice di aver rispetto. Non teme di dire che sui contenuti e sulle pratiche c’è una enorme differenza. A meno che non abbia in mente di dettare LA linea. Unica.

Deduco, dunque, che l’azione contro il dl femminicidio e la legge bossi/fini non è un intento minimamente comune tra le donne che si sono viste a #Paestum. Ché non si è voluto mostrare in modo evidente la differenza tra tutte perché altrimenti smette la fiaba dell’unità e si esce dall’ambiguità, voluta, da chi lascia tutto in campo neutro per ficcarci dentro quel che vuole.

E quel che mi piacerebbe sapere non è quando e se circoleranno due singole petizioni, private del valore originario, ma quali sono le ragioni per cui qualcun@ si oppone. Perché se non vi siete dette questa cosa, allora, senza nulla togliere sicuramente alla ricchezza delle vostre giornate, cosa vi siete dette?

Insomma la capacità di agire il conflitto “nel rispetto delle differenze” e di stare tutte unite se ne va a quel paese quando c’è da quagliare su cose importanti. E dunque a che servono questi raduni? Chi decide, poi, in fondo, l’agenda politica femminista in Italia?

Perché io so quanto può essere entusiasmante vedersi, dirsi che siamo belle e brave, conoscersi di persona, a volte, ma si fa tanta strada e si spendono soldi per trarre forza politica per le iniziative territoriali, collettive, nazionali. Se il tuo intento politico non trae forza, non ottiene la tangibile prova che il tuo lavoro territoriale trova conferma in un sentire collettivo, se non sei disposta a metterti in gioco davvero considerando le diverse pratiche adoperate da ciascuna, se insomma ciascuno resta nel suo e dopo la vince chi ha più potere e più spazio mediatico per determinare le sorti della discussione pubblica, dunque, cosa porti a casa? Una pausa, una tregua, prima di altri separatismi tematici virtuali?

Leggo pure che c’è chi si è lamentat@ perché alcune donne hanno squattato il palco per dire quello che volevano. Del tipo che devi segnarti per gli interventi, prendi il microfono, mentre aspetti il turno scrivi i pensieri intelligenti che pensi di dover dire per salvare l’umanità dall’ignoranza, approfitti per tirare fuori un po’ di considerazioni sulla tua cazzo di vita, provando a dare un senso politico ai problemi che vivi, e nel frattempo esci fuori, prendi un caffè, parli con l’altra, vai al banchino libreria, senti cose che hai già letto e sentito altrove, prima della pausa pasto… Che due ovaie!

E per fortuna che era un passaggio di testimone. In una perfetta continuità di stile e intenti.

Continuo inoltre a leggere della questione del “fondo di solidarietà” e non c’è un solo rigo che mi parli di conflitto di classe. E interiormente piango. Perché mi sembra una gran presa per i fondelli. Le parole sono importanti. Parlare di Sharing Money e di fondo di solidarietà fa la sua bella differenza. Perché nel primo caso intendi che il denaro è materia comune, risorsa per chiunque, elemento di condivisione, che non c’è una cessione tra un proprietario e il povero che deve ringraziare l’elemosina. Nel secondo caso, invece, si parte da una concezione assistenzialista che davvero mi mortifica. Io non avevo soldi ma se fossi riuscita a venire non avrei preso un centesimo dal “fondo di solidarietà”.

Poi leggo che c’è una giornalista romana, della quale ho anche un libro sul comodino, che rivendica il riconoscimento della differenza femminile nel Movimento No Tav. Interviene sulle pratiche di lotta dicendo che non sono efficaci e poi ci mette in mezzo le formichine per dire che se si è “Consapevoli della parzialità delle nostre pratiche” bisognerebbe fare “uno sforzo per trasferire i nostri contenuti in una dimensione più pubblica e sociale“.  Leggo tutto ciò un po’ di righe dopo un passaggio che parlava del femminismo come di pratiche politiche di nicchia.

E io so perfettamente che ci sono donne (e uomini) che non condividono tutte le pratiche e non le svolgono nemmeno, ma che si faccia riferimento alla “differenza femminile” per raccontare che alcune pratiche dovrebbero assumere “una dimensione più pubblica e sociale” (ovvero diventare più di massa e popolare), che si dica questo senza neppure tenere conto del parere delle stesse donne NoTav – che non mi pare lamentino l’inclusione a percorsi che non abbiano pienamente scelto – che si accenni dunque ad una sorta di differenza tra pratiche, quelle delle donne “naturalmente” femminili? Quelle degli uomini “naturalmente” maschili? Mi pare una modalità stereotipata e sovradeterminante di intendere la cosa. In fondo, poi: chi dice che ci sia questa differenza di genere?

Vorrei davvero confrontarmi su questo passaggio essenziale. Dunque le donne che non riempiono le piazze di rosa e partecipano alle rivolte morali, alle azioni di disobbedienza collettiva, alle manifestazioni con tutti i compagni, come avviene ogni giorno e in ogni parte del mondo, come abbiamo visto anche in Turchia, non sarebbero espressione della “differenza femminile”?

Ma esiste davvero una “differenza femminile”? Parliamone.

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Posted in Comunicazione, Critica femminista, Fem/Activism, Iniziative, Omicidi sociali, R-esistenze.