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I DAM e il dibattito palestinese sul femminicidio

Ve lo ricordate Don Corsi? Dai uno sforzo di memoria!

Un paio di giorni dopo il fattaccio Paola Caridi sul suo sito Invisble Arabs pubblicava un post chiedendosi come mai in Italia tutto il dibattito si concentrasse su quella singola tonaca (se la tiene? la lascia?) e non sulla necessità di scendere in piazza contro una cultura del femminicidio:

In fondo, quello che don Piero Corsi ha sottolineato, mettendo quel foglio in bacheca, è un sentire ancora comune, radicato, inespresso solo perché c’è ancora un po’ di autocensura che deriva dalla trincea costruita da decenni di battaglie femministe. La sintesi è semplice quanto disarmante: la modestia è la miglior difesa delle donne. Le virtù, domestiche e morali, sono la cintura di castità che aiuta le donne a non essere preda. Mi sarei aspettata non solo l’alzata di scudi delle associazioni, ma una discussione molto più ampia. Tanto ampia, almeno quanto ampia (e ignorante e spesso inutile e pretestuosa) è la discussione sul velo che molte donne musulmane indossano.

Che poi è quello che spesso ci siamo chieste anche noi sul perché in Italia non si voglia fare una Slut Walk, una manifestazione la cui peculiarità è proprio quella di mettere in discussione questo principio sessista (e sessuofobo) tanto radicato nella nostra società.

Partendo da quanto succede in Italia Paola trae spunto per riportare quanto sta avvenendo invece dentro la società Palestinese proprio sul tema del femminicidio.

E siccome bisogna sfatare gli stereotipi, dalle parti del mondo arabo una discussione profonda, culturale sul femminicidio (delitto d’onore…) è in corso tra i palestinesi. Tutto è cominciato da un rap, l’ultimo brano dei bravissimi, seguitissimi, famosissimi DAM Palestine. Hanno pubblicato un brano contro il delitto d’onore, assieme ad Amal Murkus, cantante e attivista per i diritti dei palestinesi.

 Conoscendo un po i DAM e la loro attività artistica e politica mi ha lasciata un po interdetta il fatto che nell’articolo si segnalasse che questo pezzo avesse scatenato delle reazioni negative da parte di due intellettuali femministe palestinesi, Lila Abu Lughoud e Maya Mikdashi, le quali sulla rivista online Jadaliyya, hanno accusato il gruppo rap di mettere da parte la lotta contro l’occupazione israeliana, mettendo in cattiva luce la società palestinese, condannando pubblicamente la pratica del delitto d’onore.

La critica delle due studiose ha dato vita ad un acceso botta e riposta con i DAM stessi, i quali hanno ribattuto che, prima di tutto, quando hanno deciso di scrivere questa canzone non si sono posti il problema di cosa ne avrebbero pensato gli Stati Uniti o Israele e che:

Gli arabi hanno iniziato a ribellarsi e stanno chiedendo un cambiamento dall’interno. Per noi “If I Could Go Back in Time”, è uno sforzo in più tra i tanti in questi tempi epocali.

Siamo parte di un nuovo movimento artistico in Palestina che è abbastanza consapevole per affrontare l’occupazione e la violenza domestica, il razzismo e il sessismo. Non rifuggiremo dal combattere i tabù della nostra società. Crediamo che possiamo, e dobbiamo, affrontare questi problemi con apertura, coraggio e onestà.

Interessata da questo dibattito ho chiesto opinioni nella nostra mailing list e vi riporto il commento di Annarella:

grazie per questa segnalazione perché è uno scambio molto interessante e molto ‘nostro’ anche (penso alla discussione su questo blog rispetto all’azione dei compagni di zona collinare in lotta che sono andati a coprire le ‘ragazze-immagine’ in vetrina…senza che né loro né gruppi femministi fossero coinvolti…). Ho letto entrambi i contributi e sono entrambi condivisibili, fanno entrambi parte della perenne discussione rispetto a dove e come lavare i cosiddetti ‘panni sporchi’ – all’interno o all’esterno? Chi può criticare legittimamente chi? Conosco Lila Abu-Lughod ed è una studiosa che mi piace molto. Ma vive a New York, e pertanto (se vuole) può ‘scindere’ il suo impegno contro la violenza di genere dalla critica ‘interna’ alla società palestinese.

Per chi vive in Palestina o per gli/le arabi/e che vivono in Israele, questa possibilità è preclusa. Parlare dell’oppressione patriarcale nella famiglia, nella società, sulle proprie aspirazioni e desideri, implica un radicamento contestuale che si fonde (e confonde) con l’occupazione e l’oppressione israeliana sia interna ad Israele sia in quel che resta dello ‘stato di Palestina’ (già perché secondo l’ONU ora ce n’è uno…) . I DAM criticano i modelli socioculturali nei quali sono cresciuti, e che sono imbevuti sia dell’oppressione e discriminazione israeliana, sia della cultura patriarcale (che anche noi nella sponda nord del mediterraneo conosciamo bene).

Mi piace particolarmente questo estratto dalla loro risposta alle due studiose, perché da un lato critica l’uso decontestualizzato di questa canzone dal resto del loro lavoro artistico; e dall’altro rivendica anche la capacità di ogni persona di non dover sempre e soltanto parlare per, e rappresentare, la propria cultura (‘to speak for one’s culture’):

“L’articolo sostiene che i DAM hanno scritto “If I Could Go Back in Time” senza fornire alcuna spiegazione del contesto. Questa canzone, però, è solo uno dei pezzi di un album. Ogni pezzo offre una parte di ciò che sono le idee dei DAM. Non serve che menzioniamo l’occupazione in ogni canzone per dimostrare la nostra legittimità politica.

Non c’è nulla di politicamente problematico con un brano di tre minuti e mezzo che si concentra sulla violenza contro le donne nella nostra comunità. In realtà crediamo che questo tema debba essere parte fondamentale del nostro progetto politico più ampio. Combattere l’occupazione e la lotta contro il sessismo e il patriarcato è, per i DAM, la stessa lotta.”

In tante sappiamo che troppo spesso le lotte nazionaliste, di decolonizzazione, le rivoluzioni, hanno finito per soffocare le lotte sociali (sia di genere, sia di classe) dalle quali sono esse stesse scaturite. La sfida come sempre è riuscire a costruire cornici di riflessione e lotta che possano tenere conto di questi nostri posizionamenti multipli che sono complessi, ma non contraddittori. E in questo…solidarietà ai DAM, ed al loro coraggio.

Posted in Critica femminista, fasintranslation, otro mundo, Vedere.

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