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Diario di una bulimica: io voglio vivere!

L’iniziativa di autonarrazione resistente “Diario di una bulimica” (o di un bulimico) continua. Iniziava da QUI e trovate altri racconti tra le Storie di Dipendenze. Quella che leggete sotto è di una amica che vuole restare anonima. Un abbraccio a lei e buona lettura a voi.

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La paziente necessita di un percorso psicoterapeutico ed eventualmente psichiatrico, in relazione al disturbo alimentare in corso: bulimia nervosa.
La diagnosi è fatta, sono malata, sono da curare, sono da normalizzare.

Dopo dieci anni vissuti nell’incubo di una dipendenza che non mi ha mai permesso di chiedere aiuto, oggi sono io stessa ad aver trovato il coraggio di dirlo al mondo: sono bulimica, e se non ne esco, un giorno di questi morirò per mezzo delle mie stesse mani, delle mie stesse dita in gola: il mio cuore non è in grado di reggere altri dieci anni così, e mi ammonisce di questo sempre più spesso. Alle volte rallenta talmente tanto da condurmi a un sonno comatoso in un corpo esausto ormai privo energie; altre volte invece, quando è sottoposto alla tortura delle pratiche autolesioniste, prende a battere talmente veloce, con tale potenza, che l’esito di questa percussione interiore sembra essere, da un momento all’altro, l’ultimo assordante colpo di tamburo che mette fine a un lentissimo e logorante rito funebre.

Per le mie tendenze a questo lento suicidio, pertanto, oggi riesco a dirlo anche io: sono malata, e voglio curarmi perché voglio vivere, mentre giorno per giorno mi uccido.

Ma oggi, ho uno strumento in più per analizzare i miei disturbi, la mia vita è cambiata da quando alcune parole hanno conquistato un ruolo centrale nel profondo della mia coscienza politica:
femminismo, anticapitalismo, antisessismo, e rivoluzione.

Un’analisi politica del reale che parta da me, come il femminismo mi insegna, non può prescindere dalla comprensione del disturbo di cui sono affetta, e con gli strumenti di cui progressivamente mi sto dotando, ipotizzo un’analisi della bulimia alimentare come l’urlo soffocato del soggetto oppresso, che nel rifiutare tale condizione, rinnega il sistema dato, e da tale sistema non si farà mai fare schiav@.

Il sistema crea categorie sociali, inquadra gli individui, ne definisce ogni aspetto della loro vita sulla base di parametri imposti, determinati dall’alto, e orientati a uno scopo specifico: dividere la classe secondo schemi dicotomici di normalità/anormalità, salute/patologia, ortodossia/eterodossia, maschile/femminile.

È il potere che definisce chi sta da una parte e chi dall’altra della contrapposizione bipolare, provvedendo a far in modo che chi non accondiscende partecipare dell’alternativa “giusta” – ovvero conformista- o chi pensa di decostruire il modello binario, non abbia modo di parlare e di rivendicare la propria autonomia d’esistenza. E’ così che il patriarcato opprime le donne, l’eteronormatività i soggetti lgbt, il razzismo i migranti. E’ così, insomma, che il capitale divide la classe, la frantuma,perchè impedisce le relazioni –politiche e personali tra le parti, e ne rende i suoi componenti impossibilitat* alla comunicazione dialettica: solo così il capitalismo può reiterare se stesso, con il paradossale quanto fondamentale sostegno di chi vive, in questo senso, in condizione di subalternità. Perché il vero soggetto subalterno, non è cosciente di questo, il vero subalterno non può affermare in questi termini se stess@. Il vero subalterno non può parlare. Ma può vomitare.

La bulimia fa saltare i paletti al sistema, usando le parole del sistema stesso.
Se la bulimia è una malattia, concetto contrapposto a una sedicente normalità sana, essa non è soltanto malattia dell’individuo.
Bulimia è dimostrazione cruda, scabrosa, e scioccante che il sistema è malato, non solo l’individuo che si autoinduce il vomito dopo aver ingurgitato cibo fino a scoppiare.

La bulimia rende palese quanto sia malato un sistema che ammala.
E se io oggi di una patologia del sistema io muoio, oggi sono l’ennesimo bersaglio di un sistema capitalista machista e femminicida.
Bulimia è malattia della relazione tra la persona e questo mondo.
Non si nasce bulimiche, lo si diventa.

Non posso parlare di tale condizione se non a partire dalla narrazione di quelle che nel mio caso sono state le cause scatenanti.

L’impatto con le pressioni sociali verso i corpi delle donne, per me è stato scioccante. Il giorno dopo essermi annoiata a giocare con le bambole (come si addice a una brava bambina) ho avuto la trapanante lezione del come si sta al mondo da donna: femminile, o gli uomini non ti vorranno; magra, o gli uomini non ti vorranno; più magra delle altre, o gli uomini vorranno le altre. Devi avere paura delle calorie, paura dei brufoli, paura della cellulite, delle smagliature, delle tette cadenti. E mettiti i tacchi ogni tanto, per la miseria, e sciogliti sti capelli ogni tanto, che sono l’arma della sensualità. Se però poi vai in giro con la minigonna non ti scandalizzare se qualcuno ti tocca il culo! Se non ti sei fatta la ceretta, non puoi uscire col tuo ragazzo conciata così. Ma poi con quanti ragazzi finisci a letto? Troietta che non sei altro! Comunque è normale non raggiungere l’orgasmo, il sesso è bello anche se viene lui e tu no. E La chirurgia fa miracoli al giorno d’oggi, ma anche le creme rassodanti sono incredibili..giù le mani da quel chicco d’uva, è una bomba di zuccheri!

Tutte voci di donne… quelle che mi hanno cresciuto, quelle che sono cresciute con me. Quelle con cui, un giorno, non sono più riuscita a parlare.
Ma una voce, sopra le altre, ha ossessionato e ossessiona i miei pensieri, la voce di colei che mi ha messa al mondo. Una madre che ha aderito con tale ossequio ai dogmi sociali del capitale, al punto da rinnegarmi come figlia nel momento in cui ho negato di conformarmi alla sua norma (la norma del sistema):
la magrezza è un valore positivo, mi dice, e se non lo rispetti, non soltanto gli uomini non ti vorranno. Io, madre, non ti voglio.
una madre che guarda alla sua creatura con gli occhi del sistema, non vede più la sua creatura, ma un essere sovrappeso.

La madre che disconosce la figlia, nega di garantirle il principio fondante della loro relazione, amore e nutrimento.
Nel cibo ancora oggi io proietto quel rapporto umano primordiale, degenerato dalle logiche del potere.
Cibo ha smesso di essere la testimonianza quotidiana di un genitore che nutre la vita della sua prole.

Così nel cibo, simbolo della contraddizione, ho espresso il mio rifiuto netto per il tentativo più distorto, di mia madre in primis, di rendermi donna solo e soltanto se sottoposta alle condizioni di un corpo standardizzato. Ma io quelle condizioni me le sono messe in bocca, le ho masticate velocemente, le ho deglutite, e ne ho mangiate ancora e ancora, fino a sentirmi scoppiare, fino a sentire dentro di me quanto male mi facevano. Poi chiusa in bagno, nel fondo di un cesso, io quelle condizioni le ho vomitate con tutta la violenza fisica di cui ero in grado verso me stessa.

Perché provavo una rabbia antichissima, ma non ero in grado di urlare.
Odiando, ma nella silenziosa disperazione, io vomito il sistema che mi opprime. Rigetto, perche rifiuto, ma senza avere le parole per riuscire a dirlo.
Sono bulimica, sì, è questo il mio urlo soffocato nel tentativo iracondo di dire: morte a un sistema di potere che, per riprodursi imperituro nel tempo, sfrutta le stesse donne che uccide, picchia, schiavizza e violenta.

Ma se oggi sono in grado di riaffermare con le parole il mio istinto alla vita, lo faccio grazie alla scoperta del femminismo, e di quel sostrato politico e sociale che costruisce la lotta di classe come lavoro imprescindibile dall’identità di genere. Non c’è rivoluzione senza le donne, senza lesbiche, gay, bisex, transessuali, così come senza bambini, migranti, e “malati/e” mentali. Non c’è rivoluzione senza l’autodeterminazione di tutti i soggetti ad oppressione specifica, contro la quale perpetrare un’unica lotta.

Sono bulimica, sì. Perchè voglio vivere.

Posted in Corpi, Personale/Politico, R-esistenze, Storie di dipendenze.