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Dieci anni di bulimia e doverli raccontare

Valentina ci ha mandato un suo personale contributo per le nostre “Storie di dipendenze” che invitano all’autonarrazione di un disagio che, come dice anche lei, è intimo e sociale, bisogna dargli voce in senso politico e collettivo, affinché si eviti di lasciare i disagi personali in mano a chi li medicalizza incrinando la tua capacità di autodeterminazione, inducendo sensi di colpa, la tua incapacità a reagire mentre il mondo attorno ti crolla tutto addosso. Raccontarsi in mille modi, con un diario, il Diario di una Bulimica, come fanno le tanti voci di Eretica, Eve, le voci raccolte da Antonella, o come fa Valentina che ci manda un suo lavoro di ricerca descritto in un articolo (scaricabile anche da QUI) ad essa dedicata:

Dieci anni di bulimia e doverli raccontare. Mica roba semplice. Tra quei dieci anni e ora è passata quella che mi pare un’eternità, anche se in verità ho solo messo quattro anni di distanza tra me e il mio “disturbo”.

Che poi mica si è volatilizzato. Lo sento premere ogni giorno quando mi guardo allo specchio, quell’amico-nemico a cui affidiamo il giudizio di come si svolgerà la giornata. A volte buona, a volte cattiva. Quel sentire premere il bottone del pantalone sul ventre che mi dice che ho preso peso, quella maglietta che non posso più portare perchè la sento troppo stretta.

La bilancia l’ho abbandonata, non mi peso più da quando ho cambiato paese e vita. Piccoli stratagemmi e negoziazioni quotidiane con me stessa, per evitare di colpevolizzarmi ogni volta che mangio e con piacere. E devo dire che per me funziona. Le crisi vanno rarificandosi e non saprei individuare la data dell’ultima. Insomma, bene o male sono cresciuta.

Psicologi e cliniche non ne ho (quasi) mai visti. Un pò per caso un pò per paura personale. Non nella psicologia o psichiatria in sè ma dell’etichetta, dell’isolamento. Non ho nulla contro le psicoterapie, i ricoveri e le cliniche ma non mi piacciono gli psicofarmaci, non mi piace il controllo dei pasti, degli orari. Non mi piacciono certi metodi che ti mettono sotto ricatto: o mangi o non vedi la tua famiglia. Sono essi efficaci? Non saprei dirlo, ma mi facevano paura.

Il mio “percorso” di guarigione è cominciato con una ricerca nell’ambito della mia laurea triennale in Francia. Studio antropologia sociale e tre anni fa mi è stata data carta bianca per sviluppare un soggetto di tesi. E io volevo studiare i disturbi del comportamento alimentare in chiave sociale. Perchè in fondo tutto è sociale; la psicologia e il sociale si incrociano nella formazione dell’individuo uomo/donna in una società data, con una posizione data e una cultura data. E da lì ho iniziato a capire che i meccanismi che riducono le donne al loro corpo, alla materia, al cibo, all’eterno ruolo di nurrice, sono anziani e complicati. Sono meccanismi che ci dicono che l’uomo può elevarsi allo spirito, perchè dotato di intelletto e distaccato dai compiti penosi che contemplano la materia. L’uomo è creatore, la donna riproduttore. La donna è corpo in una società (cattolica) che disdegna il corpo. Il destino della donna è legato al cibo.

Poi sono andata a vedere cosa dicevano di se stesse le ragazze di oggi, sui blog. I blog ProAna, tanto demonizzati, si sono rivelati pieni di contenuti. La narrazione di queste ragazze metteva in rilievo le contraddizioni implicite e esplicite che la società impone alle donne. All’essere donne. Cibo sui manifesti pubblicitari associato a tette e culi, cibo materno dispensato con tutte le contraddizioni che le nostre madri vivono, esse stesse, sulla loro pelle. Cibo decantato, cibo edonistico, cibo “dietetico”, cibo “senza materie grasse” (non cibo?), cibo bello ma non mangiarlo!, cibo delizioso ma troppo calorico. Cibo catalogato, classificato, demonizzato, diete fai-da-te, diete draconiane, diete d’aria. Un IMC ideale (indice di massa corporale) che si abbassa e ridefinisce ogni giorno la normalità della magrezza. E poi i commenti, i giudizi dei coetanei, la preoccupazione sorda e ottusa dei genitori che non capiscono e non sanno reagire.

Attraverso l’analisi delle storie di queste giovani donne ho raccontato anche me stessa. E visto che, non so spiegarvi il motivo, non riesco a mettere in trama la mia esperienza personale (non ancora, forse domani o un altro giorno) ho deciso di condividere con voi di FaS un articolo tratto dalla mia tesi. Con voi e con tutte le person* che si trovano confrontate a questi disturbi troppo diffusi. Analizzare la mia malattia, in pratica analizzarmi, mi ha permesso di metterla a distanza. Capire che non tutto si riduce alla psicologia individuale, come troppo spesso il discorso ufficiale ci fa credere, mi ha aiutata a capire, capirmi. Capirmi in quanto attrice di una società che mi vuole così e cosà e mi vede come carne da ingrassare o sgrassare secondo l’epoca. Capirmi in quanto donna in questa società che mi vuole passiva e inattiva, che mi vuole vedere subire, consumarmi e autodistruggermi.

Questo è stato il mio modo di esternare, razionalizzare e, in fondo, raccontarmi.

Posted in Narrazioni: Assaggi, R-esistenze, Storie di dipendenze.