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Di canili, reti, gabbie d’acciaio e CIE.

Come sempre parliamo di animali: umani e non. Di recinti, gabbie d’acciaio e prigioni.

La notizia dalla quale prendiamo spunto è questa.

La macabra scoperta di per sé non rappresenta una novità: l’Italia pullula di cosiddetti ‘canili lager’, strutture che non permettono l’ingresso a chicchessia – in particolar modo a eventuali volontari (che potrebbero diventare scomodi testimoni di quotidiane barbarie) – e che non danno in adozione i cani, stipati in gabbie sovraffollate e lasciati semplicemente a marcire – poiché maggiore è il numero di animali ‘ospitati’ nella struttura, maggiori sono le entrate. Tutto questo chiaramente con la complicità dei veterinari facenti capo alle diverse ASL dei territori, i quali dichiarano sempre le strutture a norma salvo poi cadere dalle nuvole quando questi orrori vengono denunciati.

Il momentaneo choc che segue la lettura di simili notizie è però del tutto fuori luogo poiché, a ben vedere, noi viviamo, subiamo e partecipiamo alla costruzione di innumerevoli recinti per milioni, anzi miliardi, di prigionieri : nei canili come nei CIE, nelle prigioni come negli allevamenti intensivi, passando per i campi rom o le reti di un non cantiere.

Quanti sono i recinti sui quali ogni giorno posiamo lo sguardo?

Sia che si tratti di filo spinato e gabbie, o di ben più inossidabili confini mentali, il loro scopo resta è rimane quello di dividere, di delimitare spazi di privilegio per alcun* e, di converso, gabbie asfissianti di privazione di libertà e diritti per altr*.

I recinti non sono mai qualcosa di vantaggioso: anche quando crediamo di sceglierli a tutela dei nostri piccoli personali interessi, anche quando appaiono ‘confortevoli’, chiudono, dietro a spesse porte blindate e cancelli… il mondo tutto intero, la vita, le relazioni, le gioie e i dolori degli altri. I confini, immateriali e concreti, hanno la capacità di eliminare in noi qualsiasi briciolo di compassione verso le sofferenze altrui.

I confini ci insegnano la mancanza di empatia e di solidarietà: ci dicono che la nostra salvezza non sta nell’aprire le gabbie, ma nel cercare il nostro piccolo spazio di libertà all’interno di esse, chiamano utopia il nostro più grande ed inesauribile desiderio di libertà.

Quanto è invece necessario credere ai propri sogni!

Ma per farlo davvero è necessario spalancare gli occhi alla realtà, per quanto dolore questo gesto ci possa provocare: quanti sono i prigionieri che incontriamo quotidianamente? E quante recinzioni delimitano quello spazio in origine comune, quante barriere fisiche e mentali ci separano?

Basta guardarsi intorno per capirlo: la recinzione di una casa chiude la vista del bel giardino al suo interno, la tapparella abbassata nasconde gli abusi di un individuo sulla propria compagna, la catena al collo di un cane ne cancella quotidianamente l’esistenza al fondo di un cortile, la rete di un non cantiere impedisce a dei cittadini di raggiungere i propri terreni per guadagnarsi da vivere…

E ci sono le alte mura dei CIE, che segregano persone incolpevoli, e le prigioni, che non riabilitano ma riconfermano gli abissi di disuguaglianza esistenti.

I luoghi di tortura, di prigionia e di morte devono essere inaccessibili agli occhi ed al cuore di chi si illude di non trovarvisi a sua volta all’interno… è necessario abituare le persone alla presenza, alla ‘normalità’ di quei recinti, e negarne l’ imparzialità.

Così mentre al di fuori la libertà pare ancora esistente, in quei luoghi infernali – e nei canili, nei capannoni degli allevamenti, negli stabulari dei laboratori – la vita diventa inutile, insensata… vera tortura.

Agli occhi di chi sta dentro i recinti e le gabbie è consentito vedere solo reti e cemento. A malapena si può intuire la vita, percependone con difficoltà i rumori o gli odori provenienti dall’esterno.

All’interno di qualsiasi lager l’esistenza è strazio. E’ mancanza di prospettiva, mancanza di stimoli, mancanza di interazione sociale che non sia tra individui sofferenti e stressati, portati ad estremizzare ogni comportamento. Le reti limitano la vita in maniera insostenibile.

Nei recinti poi – come se non bastassero le giornate sempre uguali, l’energia soffocata e repressa, anzi compressa, e la solitudine – si è completamente alla mercé di coloro i quali posseggono le chiavi di quelle gabbie, dei catenacci che sigillano quei cancelli, in buona sostanza di coloro che si sono arrogati il diritto di diventare padroni delle vite altrui. I quali, proprio in virtù del fatto che qualsiasi esistenza, privata della propria libertà, perde in dignità, mostrano il più delle volte un gusto smodato nel comportarsi da sovrani assoluti, disponendo dei sentimenti, degli affetti, delle stesse altrui vite con discrezione totale.

Gli abusi si sprecano, le violenze anche, fisiche, verbali, psicologiche: le privazioni e le percosse, la noia e la paura, la sofferenza e la disperazione… sono tutte intorno a noi, provate da individui simili a noi, quotidianamente, e davvero, mi chiedo, basta un alto muro o una porta chiusa a renderci insensibili, indifferenti a questo infinito orrore??

Assorbiti dalle nostre preoccupazioni individuali ci abituiamo alle miserie altrui … le immaginiamo lontane, ma in realtà sono assai più vicine a noi di quanto si pensi. Il nostro silenzio e la nostra indifferenza ci rendono complici di ogni abuso, la nostra iperprotettività nei confronti di ciò che reputiamo ‘nostro’ è l’altro lato della medaglia dell’incuria che riserviamo a ciò che reputiamo a noi alieno.

Perciò ogni volta che non spingiamo lo sguardo oltre ai recinti, ogni volta che non poniamo attenzione alle richieste di aiuto, ogni volta che distogliamo lo sguardo da quello di chi nemmeno più osa sperare di aggrapparsi al nostro sperando di potervi trovare una via di fuga… così come ogni volta che guardando i recinti non proviamo più nulla, ogni volta che quei recinti li abbiamo accettati, e anzi a dirla tutta li difendiamo perché ci hanno convinti che possano proteggerci da chissà quale catastrofe, noi siamo complici di coloro che provano gusto nello spezzare le vite di altr*… di più, non siamo solo complici, ma carnefici.

I recinti sono davanti a noi, dentro di noi, ogni giorno: poco importa che dietro vi sia un cane, una donna, un* migrante, una vacca da latte, un* omosessuale, un* precari*, un* rom. Quei recinti stabiliscono privilegi e pene, quei recinti rendono la vita di alcuni un paradiso e quella di altr* un inferno e decidono in maniera arbitraria chi può avere il diritto di esistere e chi va cancellato.

Di quei recinti non ci si può fidare nemmeno se si sta, temporaneamente, dalla parte considerata ‘giusta’: da un momento all’altro ci si potrebbe trovare ad affogare in un inferno di disperazione, perché fin quando esisteranno cancelli e prigioni nessun* può essere certo di non finire dall’altra parte, quella che ad oggi, consapevolmente o meno, spesso ci rifiutiamo persino di guardare per non ammettere a noi stess* di essere tra coloro che ne legittimano l’esistenza.

Un buon esercizio quotidiano quindi, potrebbe essere quello di aprire gli occhi e guardarsi intorno per davvero: capire quanto sia difficile ormai parlare di libertà, imprigionat* come siamo in milioni di recinti fisici e mentali. Capire inoltre come poter fare per liberare sé stess* e gli altri individui dai recinti che tutt* opprimono, riavvicinarsi all’altr*, umani e non.

Scegliere di rinunciare a privilegi fatti della carne, del sangue e delle vite di altri esseri viventi: scelte personali e politiche, diventare vegan, manifestare di fronte ad un CIE, riscoprire il gusto della lotta – questa volta però per i diritti di chiunque, indipendentemente dall’origine, dal sesso, dalle condizioni economiche e anche (e ormai è necessario) dalla specie. Ricominciare ad incontrare l’altr* e la sua differenza, essere pront* a spartire tempo e risorse che per essere di tutt* non devono appartenere a nessun*, munirsi di cesoie e tagliare quelle reti (quelle dei non cantieri e quelle degli allevamenti) che ci separano e ci rendono irrimediabilmente divers*… per scoprire infine quale incommensurabile ricchezza sia scoprirsi così vicin*.

Posted in Animalismo/antispecismo, Corpi, Corpi/Poteri, Omicidi sociali, Personale/Politico.


3 Responses

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  1. says

    Bellissime riflessioni, davvero.
    Grazie immensamente 🙂

  2. Claudio says

    Purtroppo ho dovuto arrendermi al fatto che l’amore per la trippa può più dell’amore universale.
    C’è gente che sarebbe disposta anche a farsi massacrare dall’esercito per una manifestazione davanti a un CIE, ma non toccarle la mozzarella di bufala.

  3. Silvia says

    So che questa frase di Adorno probabilmente la conoscete tutt* ma io sono e resto convinta da sempre, che andrebbe fatta imparare a memoria subito dopo la parola mamma, appesa per legge in ogni stanza, ufficio, piazza e scolpita in qualche montagna tipo monte Rushmore affinché resista ai millenni:
    ” Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali”