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Precarietà e prigione: fuori dal muro!

[Immagine di Steve Dininno]

Vi parlo di precarietà, come una Malafemmina qualunque, e bisogna rappresentare le vite stanche, quelle con le quali nessuno vuole spartire un po’ di intimità. Di quelle precarietà che ti fanno stare a disagio, che non le vuoi vedere, non hai niente da dire, non c’è niente da fare.

Si tratta di donne, in questo caso, ma non credo che la faccenda sia limitata a loro. Fai conto che c’è una che non ha voglia di uscire, la trovi chiusa in casa, teledipendente, potrebbe gestirsi una rubrica di critica dei programmi tv, se solo avesse internet o volesse usarla, magari potrebbe essere utile a qualcun@. Invece sta rinchiusa, sintonizzata sul canale, prima uno, poi un altro, a vedere e sentire, e si alza da lì solo per andare a pisciare, ché di quella pipì è perfino lecito descrivere l’odore giacché è una delle poche cose vive che le vedi produrre, è non ce l’ha un odore perché la donna si dimentica perfino di mangiare, di lavarsi, manca poco che rinunci a respirare. Vive i suoi periodi di letargo, come li chiama lei, poi d’improvviso esce, quando spunta il sole, o anche se c’è pioggia, e parla quieta, con una competenza che le viene da mille vite passate.

Casa sua è aperta, contrariamente a ciò che si può immaginare, c’è gente che va e viene, puoi vederla e toccarla la sua sorte, se l’è scelta e non ha difficoltà a mostrarla. Quando la vai a trovare ti dice cose che hanno senso, come se fosse viva, come se davvero fosse interessata al presente, però se siamo in troppe lei poi si disintossica, spegne il telefono, non vuole ascoltare suoni, non vuole vedere luce, non vuole più parlare, risponde malamente a chi la interpella e reagisce come si reagisce alla distruzione. Ricostruisce il silenzio e lo contempla.

Ce n’è un’altra che non ha lavoro, anzi da tempo ha rinunciato a cercarlo. Anche lei resta chiusa in casa, non esce, frequenta gente di rado, anche lei davanti alla tv, senza uno sfogo esterno, giusto qualche telefonata, però lei dimentica di saziarsi e mangia, non smette mai, senza appetito, mangia di tutto. La vedi allargarsi sempre più e con lei non vale dire che il suo peso è bello e lo deve accettare perché è sintomo di disagio e proprio non ce la fa a guardarsi allo specchio. Si guarda e vede un’altra, una che non è lei, una che ha un problema e che non vuole affrontarlo.

Lei è già più difficile andarla a trovare, vederla, coccolarla, e non conta niente dirle che è perfetta perché se lei non si piace c’è ben poco da fare.

Poi c’è quella che dopo aver perso l’ultimo lavoro ha sviluppato ansie in quantità e non sa gestirsele e dunque soffre di attacchi di panico ed è già la terza che rimane chiusa in casa e potrei andare avanti all’infinito, ché io lo so cosa significa non stare bene, e non lo so in effetti nel modo giusto perché di momenti difficili ne ho vissuti tanti ma avevo sempre troppa gente attorno, persone, vite, qualcuna che dipendeva da me, era difficile lasciarsi andare, perciò non dipende tanto dalla forza perché di debolezze certamente ne abbiamo tutt*, ma sono tante, troppe quelle alle quali vorrei offrire rifugio, una casa, un luogo, per tirarle fuori dal silenzio, dal buio, dalla prigione che si sono create, dalla rinuncia, dall’autocommiserazione, dalla tristezza.

Vorrei si sottraessero a patologizzazioni, ché le famiglie spesso le sottopongono a cure e controcure, con tanto di farmaci che dovrebbero quantomeno lenire dolore e umore, invece poi peggiorano e allora, quelle che sono tanto in gamba, non si fanno manipolare, trovano le cause, quelle giuste, che sono spesso sociali, anche familiari, ma comunque la soluzione c’è ed è pratica. Hanno bisogno di lavoro, soldi, casa, autonomia, speranza, progetti per il futuro. Hanno lottato per la sopravvivenza e non ce l’hanno fatta. Si sono arrese, e neppure tanto tardi, ma è che proprio la vita le ha stroncate e allora sono quelle che tornano in famiglia perché non sono in grado di pagarsi un affitto ed è quasi scientifico che quelle che smettono di lottare, fuori dalla protezione familiare, smettono anche di vivere, si accomodano, si crogiolano, si perdono, non hanno più lo stimolo del doversi alzare la mattina per cercare di campare.

Ogni dipendenza ti rende dipendente e alla fine ne esci, se ne esci, con tanta difficoltà perché le famiglie coccolano le assenze, le depressioni ché se non ci sono se le inventano così possono avere un obiettivo, loro, invece che pensare a se’. Non è sempre così, sia chiaro, che ci sono genitori che anzi vedo quanto faticano a convincere i figli a darsi da fare per andare altrove, ma in tanti casi, purtroppo, vedo genitori o partner che vivono la dipendenza dell’altr@ come una risorsa per motivare la propria esistenza e dunque se l’altr@ “guarisce” si innescano meccanismi affinché non accada troppo in fretta. Impedimenti, veti e tutto un insieme di cose che lascia dire che certe questioni bisognerebbe affrontarle in gruppo perché se anche solo un componente familiare non si assume la responsabilità di darti una mano a uscire fuori dal tuo problema allora la tua battaglia è quasi inutile. Farai il triplo della fatica e alla fine la dipendenza economica ti massacrerà perché per stare meglio dovresti non cedere al ricatto e andartene ma se non ce la fai con le tue forze non ne vale la pena. Da lì nasce e cresce tutto il resto, una rinascita, una seconda vita.

D’altronde so che non bisogna infierire, forzare, non bisogna mai violentare uno stato di apatia, di avvilimento, di assenza, di morte apparente. Non si può violare un muro spesso che si erge sempre più per mettere distanza tra se’ e il mondo. Si può solo restare fuori dal muro aspettando che l’altr@ si decida ad aprire quantomeno una finestra, una fessura per fare entrare un po’ di luce e forse assieme alla luce anche la mia mano, che se ti toccherà non è di certo in grado di compiere il miracolo, figurati se ho questa pretesa, ma è calore, un po’, ed è gratis, e te lo cedo volentieri, perché così si fa in questo sistema di travasi di temperature affinché tutt* si stia meglio e bene.

Si può restare fuori, continuare a parlare, a esserci, a restare, e se anche qualche volta ti venisse in mente di andar via, di dire che non ci sei più, a me tocca restare lì e lo faccio volentieri mentre tu decidi se tornare o no. Perché non sono io che devo entrare nella tua prigione. Io devo stare nettamente fuori e lì mi troverai quando ne hai voglia. Ci sarò sempre, perché è quello che fa un’amica, che non ti patologizza, non ti fa sentire in colpa, non ti scarica addosso la propria frustrazione quando non la gratifichi per quello che sta tentando di restituirti, non si realizza attraverso te, non ti usa per sentirsi più nobile, non ha alcuna voglia di salvarti. Però è lì, c’è, ti mette a disposizione un mondo che ha creato per se’, e non c’è colpa se vuoi entrarci, solo stare a vedere, sapere di avere la possibilità di esserci ma scegliere di non farlo. Quel mondo è tuo, non te lo toglie nessuno, è la tua casa, che non ti affida dipendenze, non ti mantiene gratis, non ti toglie autonomia, ti riconosce qualità se le mostri e rispetta il tuo silenzio quando non vuoi esserci.

A margine io discuto, penso, e ti chiarisco che so molte più cose di quelle che tu credi, gli esseri umani li conosco bene, e se ti accolgo non ti lascio andare, se mi ferisci facendo a pezzi il mio mondo allora semplicemente io vado oltre e non torno indietro. Perché i sistemi sono di co-dipendenza e se io sto attenta a non renderti dipendente di sicuro rifiuterò di esserlo dalle tue cose.

E’ complicato, e può sembrare senza senso ma vi assicuro che un senso ce l’ha. Quello che so è che la precarietà sta mettendo fuori uso la testa di tante, troppe belle persone che conosco, troppe donne, ma anche uomini, e questi che io chiamo omicidi sociali non saranno imputati a nessuno. Eppure bisogna parlarne perché non è tutto rose e fiori e la forza qualche volta ti abbandona, talmente tanto che serve una Malafemmina per far tornare la speranza, la rabbia, la voglia di esistenza.

Parlarne, ovunque, da qui, ancora, fuori dal muro, nella speranza che tu legga, che voi leggiate, che sappiate che abbiamo attenzione e cura e spazio intimo anche per voi…

Noi ci siamo!

Posted in Omicidi sociali, Pensatoio, Precarietà, R-esistenze.


2 Responses

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  1. Carol Povigna says

    Grazie!

  2. frapa says

    Mi aggiungo all’elenco delle precarie ma senza sensi di COLPA 😛