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Storie di ordinaria omofobia

Mi chiedo cosa sia l’omofobia, come lo spiegherei a mia madre, se solo volesse ascoltarmi.
Me lo chiedo, perché una mia amica me lo ha chiesto.

Leggevamo di Alassio e di quello che è successo, leggevamo i commenti allucinati di alcuni maschilisti del web, i soliti luoghi comuni per cui una legge contro l’omofobia non è necessaria, perché basterebbe un po’ di discrezione e altre atrocità simili, anche da parte di chi difendeva le due ragazze premettendo però che la loro è una dubbia sessualità.

La mia amica mi chiede se ho mai vissuto un episodio del genere.
Lì per lì le rispondo di no, ma poi ci penso meglio.

Mi sono venute in mente troppe cose, nell’album dei ricordi.

Cinque anni fa, camminavo per strada con la mia ragazza un uomo si è avvicinato e mi ha chiesto se ero un maschio.
E ho riso, per una domanda che mi sembrava così stupida, gli ho risposto che chiaramente non lo sono e mi sono sentita dire lesbica di merda.
Allora ho riso meno.

Il primo anno di Università. Per i corridoi si vociferava di me, una sensazione spiacevole, culminata nell’assurda situazione in cui una mia compagna di corso si era avvicinata a me per sapere quali fossero le mie preferenze sessuali, per rimpolpare il gossip.

Un collettivo di cui facevo parte. Uno dei capetti della situazione si era sentito di dirmi che di fare una giornata contro l’omofobia non se ne parlava, se mai si poteva fare una aspecifica giornata contro tutte le discriminazioni, non fosse mai che ci davano tutti dei froci.

Altra pagina, che si ripete più di una volta.
Certi ambienti in cui mi sono sentita costretta a parlare della persona con cui sto, una perifrasi lunga un chilometro che non vuol dire nulla, e poi eliminare i dettagli, fino a inventarmi il nome maschile della mia ragazza e successivamente non sapere come uscire da questo trucco, da una vita parallela assurda e inutile in cui ti chiedono: -Marco come sta?- e tu dici: -Marco chi è?- Il tuo ragazzo, Marco.

Il posto di lavoro, il pomeriggio dell’Antivigilia, tutto addobbi dorati e stelle di Natale dove invitano compagne e compagni dei dipendenti a brindare per la festa di fine anno e a me arriva l’invito per single, nonostante il mio coming out sia pubblico; io e la mia compagna decidiamo che ci andiamo insieme lo stesso e molt* passano il tempo a chiedermi della mia “amica”.
Qualche collega imbecille ci prova anche.

Le professoresse del liceo, indignate perché nella giornata da loro tanto voluta contro gli stereotipi di genere le mie compagne ed io abbiamo pensato di portare nelle scuole anche la soggettività lesbica, un colpo basso.

Le infelici parole del consigliere di maggioranza del comune in cui lavoro, che pur con la buona volontà di includerci nella cittadinanza attiva ha detto a
una manifestazione -di ottimi propositi- contro gli stereotipi di genere e di orientamento che “poi è bello se si riesce ad andare oltre all’imposizione di un genere sull’altro e riconoscersi nelle reciproche differenze per unirsi nella platonica mela, perché un uomo e una donna sono un’unione perfetta”.
Noi delle associazioni LGBTQI che ci chiedevamo se fosse uno scherzo grottesco o un lapsus imperdonabile.

La mia vecchia psicologa che dopo anni di terapia si ostinava a chiamare la mia compagna, di cui sapeva anche il nome suppongo, “quella ragazza”, come se fosse una tra le tante e con un ruolo marginale nella mia vita, psicologa che ho abbandonato dopo che aveva messo in dubbio il mio essere lesbica, attribuendolo ad un mancato superamento di alcune fasi freudiane.

Un mio amico che mi chiede della mia sessualità, di come la vivo, di cosa facciamo a letto la mia compagna ed io, perché quello che faccio tra le lenzuola lo
interessa quanto la vita dei pigmei (mi chiedo se trovo più assurdo il suo razzismo, il sessismo omofobo, o se sia la mancanza di imbarazzo nel chiedermi una cosa tanto stupida che mi impressiona).

Le serata in cui ti trovi sbronza alle cene di ex- compagn* di classe e poi si fanno quelle battute stupide, tipo noi maschi che ci tocchiamo i muscoli ma non siamo mica finocchi..e chissà cosa fanno insieme loro due ragazze di là che non tornano più dal bagno.

Il vocalist di una festa sul litorale adriatico che nella marea di corpi che saltano sulla spiaggia intona il coro chi non salta un ricchione è..

Queste sono situazioni fastidiose e logoranti.
Me le scrollo di dosso, con un po’ di noia perché comunque nel bilancio quotidiano pesano e me le appunto, alzando la mano e la voce ogni volta che succedono.
Se ci penso però l’omofobia che ho sperimentato da vicino in modo più doloroso è quella che vivo nel rapporto con i miei genitori.
Mi viene difficile scriverne, perché è una situazione travagliata che mi porto dietro da anni.

E’ difficile parlarne, anche perché se ci mettiamo a parlare della mia vita affettiva -mai apertamente, perché è quasi un tabù- finisce in lite.
E’ successo per anni, anni in cui ero una pazza, una deviata, una deficiente costretta da quelle troie delle mie amiche, in particolare dalla mia ragazza dell’epoca, a seguire modelli sbagliati, un dispiacere, una persona cattiva che preferiva altro alla famiglia, una delusa da amore che ripiegava per questo sulle donne, una zitella acida.

Io non so se il loro sia stato il dolore di vedere una vita difficile davanti a me e non siano stati capaci di gestirlo, quando sono ottimista penso che sia andata così, altre volte penso solo che la loro ferocia sia stata il prodotto di una mentalità ristretta, di
paese, dove c’è una normalità da rispettare e un codice d’onore e di potere cui sottomettersi: io ne sono semplicemente stata sempre al di fuori.
So che anche ora che i tempi dei primi scontri sono lontani, se mio padre ed io parliamo finisce che entrambi diciamo che ci facciamo schifo, e quello che mi ferisce è il fatto che non riconosca nella mia diversità (plurale, perché il mio orientamento sessuale è solo una delle scelte su cui io e lui ci troviamo abissalmente distanti) un’esperienza altrettanto ricca e importante che quella che per lui è stata la sua famiglia.
Mia madre si è chiusa spesso nel suo silenzio impenetrabile, abbiamo via via smesso di parlare di sentimenti profondi per non ferirci, perché lei ha sempre ritenuto la mia famiglia colpevole della mia scelta sessuale, ritenendola come una menomazione che avremmo potuto evitare se fossimo stat* tutt* più attent*.

La loro omofobia è stata la più dolorosa, perché per anni come reazione mi sono chiusa e ho costruito una scorza coriacea, che mi serviva per mettermi al
riparo dai loro attacchi sulla mia vita, che erano distruttivi: non sono stati facili per niente, perché è una violenza con cui condisci ogni pietanza, che ti annichilisce e ti fa sentire nulla, distante da tutto.
Mi sono ripetuta mille volte che il loro era solo un modo ambiguo di volermi bene, se ci ripenso so che non è affatto così, perché era violento e cieco e mi ha costretta a scegliere di essere da sola piuttosto che affrontare con loro le difficoltà, perché se volevo restare me stessa non potevo includerli nella mia vita.
Perché il prezzo della loro vicinanza era troppo alto e per me soccombere non era una buona idea.

A distanza di tempo il rapporto poi si è disteso in parte, da entrambi i lati forse abbiamo cercato di capirci, perdonarci per come abbiamo affrontato i momenti di tensione, anche se so che non è ancora risolto del tutto: mio padre non approva le mie scelte e se va al bar con gli amici dice che vivo lontana con un’amica per spendere meno e mia madre mi ripete che sperava in qualcosa di meglio per me; riesco ad avere il lusso di poter scegliere se e quando andare a casa e quanto fermarmi, che è una cosa che sono riuscita ad ottenere grazie al tempo e grazie al fatto che tra alti e bassi ho un lavoro che mi permette di autogestirmi, ho rinunciato a parlare con loro di molte cose di me e sento che per me questo è stata ed è una perdita, che spero di colmare con il tempo, perché penso
che il coming out sia un processo che a volte dura decenni: forse più che altro ci spero, perché sento che sarebbe bello per tutt* crescere insieme.

Con mio fratello ho recuperato in modo insperato un rapporto che si era incrinato quando l’ondata di omofobia aveva colpito anche lui di rimbalzo e lo aveva fatto sicuramente soffrire, arrabbiare e ingelosire, al punto di vomitarmi addosso il suo malessere e non volermi più vedere: io all’epoca ero piccola per spiegare anche a lui e troppo impegnata a mettermi in salvo.
Adesso ci vediamo abbastanza spesso e quest’anno siamo anche andat* in vacanza insieme: lui, la moglie e la bimba di cinque anni e mezzo che è l’amore delle zie.

Ci ho messo anni a stare bene con me stessa e con gli altri, a vivere senza paura che qualcun* mi avrebbe aggredita o presa in giro per la semplice ragione di esseere, a dire ad alta voce chi sono senza preoccuparmi di come questo sarebbe stato accolto da chi avevo davanti.
Ci è voluto tempo, lontananza dai miei e un lavoro continuo su di me per riuscire a mandare via tutti si sensi di colpa che non so perché, ma a un certo punto mi rimanevano impigliati addosso e sono felice di essere riuscita a decidere che ero io a scegliere chi ero e non gli altri.

E’ anche per questo che una storia come quella di Alassio mi fa arrabbiare.
Perché so quanto sia difficile scendere in piazza, nonostante tutti ti guardino e comportarti normalmente e baciare la tua compagna se ti va.
Avvenire in questi giorni dice le stesse cose sul matrimonio di Paola Concia
con Ricarda, la sua compagna.
Si ritorna sempre alla possibilità di essere chi siamo, ma nel privato, di non fare clamore, di non dare spettacolo.

Essere lesbica non è una dimensione privata, come non lo è essere donna, nera o antifascista.
Credo che per alcun* sia più difficile coglierlo, spesso perché chi appartiene a una maggioranza machista, bianca ed eterosessuale, non sta mai rintanat* in questa dimensione privata e non sa quanto possa essere stretta ed asfittica.
Altre volte perché, come mio fratello, in questa dimensione ci è cresciuto ed è solo grazie alla sua intelligenza che ha scelto di sottrarsi dal suo ruolo di inquisitore privilegiato per aprirsi a un confronto con chi, come me, porta un’esperienza diversa, che certamente scardina una società precostituita formata dalla cellula fondamentale della sacra famiglia uomo- donna- figli.
Stiamo meglio tutt* e due, da quando lui ha fatto un passo verso di me e io uno verso di lui, per raccontargli chi sono. Ed è stata una crescita reciproca, in cui ci siamo dat* tanto a vicenda.

Vi lancio un’idea, un gioco…
Provate tutto il giorno a rimuovere il vostro orientamento, a nascondere i vostri affetti con perifrasi, a neutralizzare il tutto con tutte le persone che vi circondano, a camminare a fianco de* vostr* partner senza avvicinarvi mai, senza tenervi per mano, senza darvi un bacio quando ne avete voglia.
Poi ditemi che differenza c’è tra discrezione e invisibilità.

Posted in Narrazioni ultimate, R-esistenze.


8 Responses

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  1. Paolo84 says

    X sara
    Bè a dire il vero, me piacciono pure quelli con le risate finte (Friends, How i met your mother, Will & Grace) comunque sono quasi sicuro che si sia trattato di un errore di traduzione (questi telefilm di solito sono attenti a non offendere nessuno specie su questi temi)..in effetti sentire “normale” contrapposto ad “omosessuale” mi suona malissimo, crea una barriera che andrebbe abbattuta e come diceva Nanni Moretti “le parole sono importanti! Chi parla male pensa male!”, non è detto però che chi magari per errore o superficialità usa certi termini voglia disprezzare la diversità, dipende sempre dal contesto in cui certe cose si dicono e dalle intenzioni che si hanno.
    grazie per la chiaccherata

  2. sara says

    x Paolo84
    ehehh, lo so… infatti avevo detto che poteva trattarsi di una traduzione fatta male…
    The L. World, l’ho visto qualche volta, mi piace, ma quel telefilm era molto diverso… di quelli con le risate e applausi finti, che già li odio a prescindere.
    Purtroppo credo di essermi spiegata male sulla questione del linguaggio: io non parlo di “linguaggio politicamente corretto”, quello che mi infastidisce è il senso che le parole nascondono. Non è l’uso del termine “negro” o “nero” che rende più o meno razzista, ma non posso accettare che si utilzzi un linguaggio nato da schemi culturali scorretti: dire, come in questo caso, “noi normali” e “voi omosessuali”, creare questa dicotomia per cui se sei omosessuale non sei normale, sei diverso, altro, e comunque non sei “noi”.
    Non so, hai mai visto Malcom X? anche lui iniziò in carcere il suo percorso con un dizionario in mano.
    Spero di essere stata chiara. In realtà è una questione moltopiù complessa e filosofe e femministe se ne occupano ormai da anni… e per me s’è fatto molto tardi per poter riuscire a fare un discorso che abbia un senso compiuto, buona notte!

  3. Paolo84 says

    nei telefilm drammatici o comici che guardo l’omosessualità è tratta con rispetto, nel senso che i personaggi gay non sono trattati diversamente dagli altri, cioè hanno una loro complessità

  4. Paolo84 says

    X sara
    I telefilm americani che vedo io di solito affrontano il tema dell’omosessualità con grande sensibilità e ironia (ironia vera, positiva non becera) sul lesbismo penso ad esempio a The L. World.
    Io sono un appassionato di telefilm e film quindi non sono obiettivo però t’invito a non giudicare un telefilm da una singola puntata o peggio da una singola battuta forse tradotta male e che comunque va vista nel contesto narrativo
    Sul linguaggio, mah..non vorrei che si cadesse in inutili formalismi politically correct, una stessa parola può assumere un senso diverso a seconda di chi la pronuncia e in che contesto, per fare un esempio “negro” detto da un leghista vuol dire una cosa, detto in un film di Tarantino magari da Samuel L. Jackson vuol dire una cosa diversa

  5. sara says

    brava, il tuo articolo m’è piaciuto, nel senso che sono contenta per come hai superato e stai affrontando TUTTO…
    tempo fa uscivo spesso con un’amica lesbica e, anche se non si facevano grandi battaglie pubbliche, ricordo che era un continuo scontrarsi con il mondo, con gli sguardi inquisitori degli altri, con le battutine che ancora adesso mi fermo a cercare di comprenderne l’ironia. Ma la battaglia più dura che ho fatto è stata con questa mia amica che usava (e chissà se lo usa ancora!) un linguaggio sbagliato e sessuofobo, e capitava di sentirmi dire che per noi “normali” le cose sono così e per loro “diversi” le cose sono cosà… traendo spunto dall’unica puntata che ho visto di un telefilm americano che ha per protagonista una lesbica. Odiai quel telefilm (anche se ammetto che potrebbe trattarsi di un errore-orrore di traduzione) e rimproverai la mia amica. Sono convinta che un cambiamento di rotta contro l’omofobia, debba partire anche da una correzione del linguaggio… e questo vale per combattere qualunque tipo d razzismo.
    Per quel che può valere, io ti sono vicina!

  6. Barbara says

    Grazie, bellissimo articolo. Grazie.

  7. Paolo84 says

    Per quel che serve, piena solidarietà da parte di un maschio bianco eterosessuale. Tanta gente deve ancora imparare che etero o omo, i sentimenti, l’amore, la voglia di stare insieme e di scambiarsi affetto non cambiano

  8. Chiara says

    Bellissimo articolo! In Italia si può essere un delinquente un pedofilo, uno stupratore, ma non un omosessuale. In Svezia il Medioevo è durato fino al 1600, ma poi è finito definitivamente…Sono sempre più stanca e delusa…
    Chiara