Skip to content


I panni sporchi li portiamo in piazza e li facciamo sventolare

Ieri durante una serata tra colleghe e amiche ascoltando insieme al telegiornale la notizia della donna ammazzata dall’ex marito a milano abbiamo iniziato a parlarne. Non del caso specifico ma ognuna delle proprie esperienze. In maniera diretta o indiretta ciascuna di noi si è imbattuta in donne le cui vite sono state falciate o profondamente intaccate dal rapporto con uomini violenti.

Ognuna di noi ha una storia di una amica, cugina, zia, della propria madre, della vicina di casa, della professoressa di scuola o della collega di lavoro la cui esistenza è stata fortemente danneggiata o irrimediabilmente distrutta dall’egoismo e dalla prepotenza di uomini maltrattanti. Sono venuta a conoscenza di storie terribili ed assurde.

Di fronte alle nostre esperienze dirette non ci sono bugie che tengano. Le nostre vite e delle persone che ci stanno accanto sono la conferma che tutta questa violenza esiste e ci sta massacrando, e se non siamo noi in prima persona a prendere le botte, a rischiare la vita, a ricevere decine di telefonate nel cuore della notte, ad essere insultate, strattonate, umiliate, a dover scegliere tra “lui” e il lavoro, “lui” e gli amici, “lui” e il nostro sorriso, lo è una persona che ci è vicina e ha incrociato la nostra vita.

Dobbiamo parlarne tra di noi, dobbiamo raccontare cosa succede quotidianamente perchè nessuno ci possa prendere in giro dicendoci che sono solo invenzioni di qualche fanatica. Chi dice che la violenza sulle donne non esiste o tenta di minimizzarla e sminuirla lo fa per odio e proprio tornaconto. Chi ci rimette siamo tutte noi.

Quando in Italia si lottò per ottenere e difendere la Legge 194, quello che mosse tante persone, non solo donne e non solo militanti femministe, fu la consapevolezza, nata dalla propria esperienza, che tante donne erano costrette a ricorrere agli aborti clandestini, mettendo a repentaglio la propria vita. Ognuna aveva avuto in famiglia o conosceva donne che erano passate da prezzemolo, cucchiai e ferri da calza.

Depenalizzare l’aborto fu una scelta per la vita, l’autodeterminazione e il benessere delle donne.
Oggi stiamo combattendo perchè la vita, l’autodeterminazione e il benessere delle donne sono ancora conquiste fragili o mancate. Il lungo elenco di donne ammazzate e massacrate ne è la conferma, insieme a tutte le vicende di cui ognuno e ognuna di noi è testimone.

Ancora una volta dobbiamo scegliere se il nostro essere testimoni si trasformi in omertà o in ribellione.
Smettiamola di consigliare il fondotinta giusto per coprire i lividi o serrare bene le finestre per non sentire le urla e i tonfi in casa dei vicini.
Smettiamola di suggerire pazienza e sacrificio o fingere di non vedere le richieste di aiuto. Tutto questo continuerà a permettere che il massacro continui e aumenti pure, perchè se nessuno si oppone, chi maltratta è legittimato a farlo dal silenzio dell’opinione pubblica.

E’ questa la cultura che vogliamo? Quella dove i rapporti tra le persone si fondano su ruoli imposti, sulla persecuzione, la minaccia e lo sterminio?

Noi vogliamo
manifestare insieme a tutte e a tutti coloro che vogliono dire basta a questo massacro. Portate i vostri lenzuoli insanguinati.

I panni sporchi li portiamo in piazza e li facciamo sventolare. Se qualcuno si deve vergognare di tutte le violenze che le donne subiscono non sono certo le donne stesse.

—->  BOLLETTINO DI GUERRA

Posted in Corpi, Fem/Activism, Iniziative, Personale/Politico.


One Response

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. Leila says

    L’omertà all’interno di un nucleo familiare è parte integrante di un’educazione, non solo perpetuata all’interno della famiglia, ma in modo più ampio nella società. I silenzi omertosi imbrigliano la crescita e gestiscono la formazione della personalità. I cosiddetti “segreti di famiglia” non imbarazzano, se denunciati, solo i grandi o gli abusanti in generale, ma implicano vergogna anche per la vittima stessa, grande o piccola che sia. Si impara sulla propria pelle a star zitti… dal momento che fatti e persone rendono la denuncia difficoltosa, inefficace o persino non creduta. A volte capita che quel segreto venga ulteriormente ritorto contro la vittima e non per averlo taciuto, ma proprio per averlo condiviso… Se è vero che nel silenzio si attiva una spirale che non lascia altra possibilità che soccombere, è altrettanto vero che il parlarne può procurare un altro tipo di angherie. Anch’esse difficili da sopportare e dolorose. Per assurdo potrei dire che l’omertà corrisponde alla consapevolezza della misura del dolore. Purtroppo spesso sottovalutata… Ma la società non ci insegna ad avere fiducia, ne tanto meno sostiene la vittima. Accade spesso che la fiducia venga spezzata e delusa ulteriormente.

    Personalmente fin da adolescente, ho cercato di condividere alcuni miei segreti con le amiche, poi, crescendo, anche con i partner. Ma tali confidenze a volte sono state usate a mio sfavore da queste persone, approfittando di alcuni dissapori o solo per prendere le distanze. Le dinamiche che mi si sono presentate sono state essenzialmente di due tipi:

    Gli uomini hanno usato le mie parole per ferirmi in maniera diretta, arrivando persino ad ipotizzare legami genetici per confermare alcune loro accuse (come dire: tale genitore, tale figlia) o solo per attribuire a me soltanto la colpa dei loro contrasti nei miei confronti.

    Le donne hanno svilito le mie denunce e la mia sofferenza, per poter meglio parlare della propria, amplificandola. Come in una gara tra chi ha sofferto di più.
    Ricordo una frase che mi ha lasciata basita: “A te, i tuoi distruggevano la cucina; a me, hanno devastato l’anima”. Non mi permetterei mai di sottovalutare il dolore altrui, ma in quel momento di confidenza certo non mi aspettavo di essere giudicata. (Tanto per inciso raccontavo di: mobili della cucina rotti, stoviglie sparse in terra, cibo che cola sulla parete e mia madre in terra che piange in tutto questo spaccato d’inferno. Dubito che siano situazioni che lascino la personalità inalterata). Così il mio sfogo si è trasformato in un ulteriore dispiacere. Non mi aspettavo carezze, né frasi patetiche; volevo solo essere ascoltata ed esorcizzare la sofferenza, per trarre quel giovamento che il silenzio credevo mi avesse negato.

    In entrambi i casi ciò che mi ha ferito è stato il sentirmi trascurata, quasi ignorata… Così, spesso mi sono pentita di aver raccontato le mie cose. Ritrovandomi a continuare nel mio silenzio, non perché ciò fosse indice di complicità, ma per l’inutilità e il dolore che derivava da tali aperture. Credo che non sia stato per un mio errore di valutazione o per un eccesso di sfiducia, ma che purtroppo sia costume non reputare importante l’educazione al rispetto e non dare la giusta considerazione alla parte offesa.
    Sicuramente la condivisione allargata e sostenuta potrà sconfiggere almeno il silenzio…
    Leila